Sotto La Luna Del Satiro - Rebekah Lewis страница 3.

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Dopo essersi tolto la borsa e averla messa al sicuro, insieme ai suoi effetti personali, nel piccolo sacchetto appeso alla sella, Ariston controllò di nuovo che la siringa fosse avvolta con cura nei vestiti di ricambio. Il flauto, creato da Pan unendo le canne palustri che avevano fatto da tomba alla ninfa Siringa, si era dimostrato troppo potente per poter rimanere nello stesso luogo troppo a lungo. Pan temeva che lui stesso sarebbe stato tentato di abusare della magia in esso contenuta. Parole importanti, dette dallunico dio dellOlimpo praticamente privo di brama di potere.

Quando Xanto gli aveva affidato lo strumento, qualche giorno prima, Ariston si era offerto di lasciare la Grecia. Se ne sarebbe andato in ogni caso, ma la siringa gli forniva una scusa. Come Pan, Ariston non aveva alcun desiderio di usarla. Quando la magia diventava necessaria, utilizzava il flauto che il dio aveva creato in un secondo momento, sul modello della siringa. Prima o poi, avrebbe dovuto rintracciare un altro arcadico, per evitare che la posizione dello strumento venisse scoperta. Finché la siringa fosse passata da una mano allaltra, infatti, localizzarla avrebbe rappresentato una sfida per chiunque ci avesse provato. Con il tempo sarebbe stata dimenticata, trasformandosi in una leggenda, e nessuno lavrebbe più cercata. Fino ad allora, però, Ariston si sarebbe potuto lasciare alle spalle gli altri satiri e scacciarli dalla sua mente.

Slegò il cavallo, il cui morbido pelo marrone era reso nero come linchiostro dalla pioggia, e iniziò a camminargli al fianco. Ariston poteva cavalcare come qualsiasi uomo. Tuttavia, riusciva sempre a percepire la presenza fantasma degli zoccoli, sebbene fossero invisibili. Quando muoveva le dita dei piedi, a muoversi era solo lillusione. Il suo zoccolo non era altro che un pesante e tozzo, beh zoccolo. In ogni caso, camminare gli faceva bene. Gli consentiva di rimanere concentrato sul presente, invece che pensare al passato.

Mentre conduceva il cavallo verso la foresta, un ramo si spezzò da qualche parte in lontananza. Ariston esitò, cercando segnali di pericolo tra gli alberi e lungo il pendio della catena montuosa. Al suo fianco, il cavallo nitrì piano e agitò il muso, ma non sembrava preoccupato. Ariston sentiva la morsa pungente del vento sulla pelle bagnata, mentre laria si faceva sempre più fredda man mano che si avvicinava la notte. Doveva passare per i boschi, per evitare di essere visto sulle strade principali. Il fatto che i Greci credessero alle loro leggende non significava che avrebbero gradito lincontro con le creature che popolavano le storie della buonanotte. Né desiderava essere preso in giro o aggredito per il suo aspetto nella terra che un tempo aveva chiamato casa. Il ricordo di quel posto non aveva bisogno di essere infangato ulteriormente.

Non volendo prolungare linevitabile, Ariston condusse il cavallo allinterno del bosco. Avrebbe acceso un fuoco per scaldare entrambi, se solo fosse riuscito a trovare un pezzo di legno abbastanza asciutto da bruciare. Con la coda dellocchio, vide un movimento e sentì una voce femminile canticchiare, così sommessamente che fu quasi certo di averla immaginata.

Legando di nuovo il cavallo a un albero, Ariston ispezionò lambiente circostante, fingendo di cercare un riparo dalle intemperie per la notte. Ecco. Ancora quel canto, alla sua sinistra. Alzò la testa e strizzò gli occhi contro le gocce di pioggia, ma non vide nessuno. Poi capì.

Ninfe. Almeno una, in ogni caso. O era perfettamente consapevole di cose fosse o stava semplicemente giocando con quello che credeva essere un mortale, dal momento che il sole non era ancora tramontato abbastanza da far svanire il suo aspetto umano, facendolo apparire nuovamente come un satiro. Le ninfe erano note per cacciare gli umani, un po come i satiri, ed erano solite prendersi il loro piacere ovunque riuscissero a farlo. Secondo la leggenda, se un uomo fosse riuscito a catturare una ninfa, avrebbe potuto prenderla in sposa. Sarebbe stata solo sua fino alla Luna del Satiro successiva.

Ariston si derise silenziosamente. Sapeva per esperienza che quelle storie erano spesso una combinazione di verità e immaginazione. Le ninfe seducevano gli uomini che trovavano desiderabili, ma raramente instauravano una relazione con gli umani, eccetto in rare occasioni. Era quasi impossibile scovare una ninfa, perché erano loro a scegliere i partner sessuali e apparentemente erano in grado di scomparire nel nulla, diventando un tuttuno con la terra o con lacqua, se minacciate. Costringerne una a diventare una sposa ridicolo. Ariston non era stato in grado di localizzarne nemmeno una dalla notte della maledizione. Certo, aveva un evidente svantaggio, non essendo in grado di vedere una ninfa a meno che non fosse lei a volerlo.

Eppure, aveva sentito la melodiosa voce di una donna dove non cera nessuna donna da vedere. Che il Fato gli avesse davvero concesso una tale opportunità? La ninfa necessaria a spezzare la sua maledizione e a renderlo di nuovo umano? Avrebbe potuto essere di nuovo libero, ma prima doveva trovarla e convincerla che meritava di essere salvato.

«Dove sei?» Ariston si stava guardando intorno, girandosi di qua e di là, quando sentì uno sguardo su di sé.

«Sono quassù, satiro» lo stuzzicò la ninfa. Ariston seguì il suono della sua voce e la trovò appollaiata su un albero, sorridente. Portava una semplice tunica bianca, simile a quelle indossate dagli dèi dellOlimpo. Quellabito la faceva sembrare decisamente antica. Fantasmi del passato fluttuarono nella sua mente.

«Dafne.»

Era stata presente la notte della maledizione, finché Apollo non se ne era andato, portandola con sé e lasciandoli tutti lì a marcire per leternità come mezze bestie. I capelli scuri le si appiccicavano alla fronte e alle spalle a causa della pioggia, aggrovigliati invece che ondulati. Ciò non diminuiva in alcun modo il suo fascino, ma la rendeva più selvaggia, più spensierata e non faceva che tentare ulteriormente Ariston.

«Ti ricordi di me? Sono affascinata.»

«Non mi interessa cosa sei, ninfa. Vieni giù e guariscimi!»

«Per gli dèi, Ariston. Certamente sai come far sentire desiderata una donna. Come pensi di riuscire a liberarti di quelle corna, quando non riesci nemmeno a convincerne una a scendere da un albero? No, non posso curarti. In ogni caso, non sono qui per disfare la tua maledizione.»

Era un ringhio quello che aveva appena emesso? Ariston non riusciva a ricordare di aver mai prodotto un suono simile. Perché Dafne era lì per deriderlo? Avrebbe potuto essere la sua salvezza. La sua libertà! Eppure, lo scherniva da unaltezza sicura.

«Non mi lasci altra scelta, allora.» Si avvicinò allalbero, con lintento di arrampicarsi e strapparla da lì. Cosa avrebbe fatto una volta che lavesse avuta fra le mani era unaltra storia. Non poteva fare sesso con lei per spezzare la maledizione fino alla Luna del Satiro successiva e non sapeva quando sarebbe apparsa. Cerano persone in grado di tracciare i movimenti delle stelle e della luna, ma per domandarglielo avrebbe dovuto cercarli e allo stesso tempo evitare che Dafne scappasse.

«Smettila subito.» La voce della ninfa aveva abbandonato il tono giocoso. «Sono venuta per parlare. Devo trasmetterti un messaggio, prima che Apollo realizzi che me ne sono andata. Il che probabilmente avverrà a breve.» Guardò verso il sole allorizzonte, nascosto dietro a delle nuvole scure e rabbrividì.

«Fammi capire», disse Ariston. «Non solo mi sbandieri davanti il rimedio che rifiuti di concedermi, ma scateni su di me anche lira di Apollo?»

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