Anton Barrili - I rossi e i neri, vol. 2 стр 4.

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 Qui venticinque, ed Ella fa ventisei. Là di rimpetto, or fanno tre minuti, erano diciotto. Ora ventisei e diciotto, se bene ho imparata l'aritmetica, fanno quarantaquattro, e da quarantaquattro a giungere sui cento, mancano ancora cinquantasei.  Lorenzo si fece scuro in volto, e in cambio di dimenar le labbra, come aveva fatto prima, le morse, in un impeto di suprema amarezza.

 Per fortuna,  diss'egli poscia, quasi volesse ingannar se medesimo,  non sono appena le otto e mezzo, e gli amici possono capitare da un momento all'altro.

 Sì, aspettiamoli, questi veri Italiani!  soggiunse il Martini, accompagnando la sarcastica frase con un moto ondulatorio del suo atletico torso.  Ah, comandante! Noi in Italia, sia detto con sua licenza, siamo di gran chiacchieroni, col nostro __Elmo di Scipio__ irrugginito e coi nostri __giuriam!__ dove non si mette altro che il fiato. E la veda, non mi fa mica meraviglia che siamo così pochi alla posta. Io n'ero così certo, come della esistenza del figlio unico di mia madre. Ma, per l'anima del Ferruccio, e di tanti altri valentuomini che si citano così spesso e volentieri, io sono stupefatto di non veder qui certi ammazza sette e storpia quattordici, che gli sapeva mill'anni di far le schioppettate, ed erano sempre lì a spingere, a tacciar gli altri di mala voglia. Se mi cascano sotto l'ugne, questi figli di Bruto

 C'è il Garasso?  chiese Lorenzo, che metteva i nomi dove il Martini non aveva messo altro che gli epiteti.  E il Dellaquinta e il Gasperini, ci sono?

 Neanche l'odore!  rispose il buon popolano.  Già, del Garasso ho sempre dubitato, io, e metterei la mano sul fuoco che egli è una spia.

 Che cosa dite, Martini?

 So quel che dico, e glielo ripeterò a lui, e gli romperò anche il grugno, se ardirà farsi vivo. Quanto agli altri due, non ci hanno altro peccato che la vanità, ed è questa che li fa uscire in tante smargiassate. In fondo son disperatacci che vorrebbero aver quattro soldi, e farebbero patto di non metter più elmi di Scipio, nè giurar morte ai tiranni, per tutto il tempo di lor vita.

 E il Tarlati, e il Geremia?

 Oh, ci sono, questi due, ci sono; ma il primo, mogio mogio, s'è accovacciato nella paglia e dorme dalla paura; il secondo è ubbriaco fradicio, e non fa che rompere il capo alla gente. Lo senta; grida come un dannato.

E accostandosi ad un uscio semichiuso, donde giungeva ai due interlocutori dell'anticamera un suon confuso di gente raunata, lo spalancò gridando:

 Zitti là, che vi farete sentire di fuori! Ecco il comandante!

Lorenzo Salvani entrò allora in una stanzaccia male rischiarata da una lucerna a beccucci, posata nel mezzo d'una gran tavola d'osteria, e da due o tre moccoli di candele steariche, piantati nel collo di altrettante bottiglie vuote. Lucerna e candele avevano tanto di moccolaia fungosa, che dava assai più fumo che luce, nè certo aiutava a diradare la nuvola fitta che l'assiduo fumar delle pipe aveva formata sulle teste dei congregati. I quali sedevano, in numero di quattordici o quindici, intorno alla tavola, piena stipata di fiaschi, bottiglie, bicchieri, picce di pane e fette di salame qua e là distese su brandelli di carta. Altri parecchi dormivano della grossa sdraiati lungo le pareti, sopra alcune bracciate di paglia, e se n'udiva il russo accompagnare le voci avvinazzate dei più verbosi seduti.

Un altro dormiva a gomitello, su d'un angolo della tavola, non udendo lo strepito che gli si faceva alle orecchie; due o tre altri comparivano dal vano dell'uscio di una camera vicina, dov'erano le armi, in atto di sperimentare lo scatto dei fucili, o le lame delle sciabole, che erano là dentro in quantità. E le voci alte e fioche dei seduti, l'acciottolìo de' bicchieri, lo strepito delle armi e il russo de' dormenti, facevano una babilonia da non dirsi a parole.

All'apparire di Lorenzo tutto quel frastuono cessò. Il comandante!  fu la parola che corse sommessamente lungo le sponde della tavola.

 Il comandante?  ripetè, ma più alto, una voce fessa e impacciata dal vino.  Viva il comandante, e si beva alla sua salute!

 Zitto, Geremia!  gridò il Martini.  Tieni la tua parlantina per questa notte.

 O come, sor tenente? voi togliete la libertà della parola?  chiese con un ridevole strascico di frasi il poco biblico Geremia.  Non siamo qui radunati per salvare la libertà, noi? La libertà è libera, io dico; viva la libertà! Parlo bene, o parlo bene?

Il comandante, a cui era rivolta questa burlesca domanda dell'ubbriaco (e lo dimostrava il gesto di Geremia, che accostava militarmente la palma rovesciata dalla mano alla visiera del caschetto), rispose asciuttamente:

 Sì, avete ragione; ma se fate chiasso fin d'ora, darete la sveglia ai nemici, e non si potrà più far nulla, per questa povera libertà.

 Ben detto! ha ragione il comandante!  soggiunsero molte voci.

 Ma, io dico  balbettava Geremia.  Io dico che l'uomo

 È ubbriaco!  proseguì un altro, daccanto al beone, dandogli sulla voce.

 Ubbriaco io? io che ho bevuto appena tre bicchieri di vino?

 Bevine un quarto,  interruppe il Martini,  e falla finita. Se ti garba, potrai andar sulla paglia, a tener compagnia al Tarlati, che russa come un contrabasso.

In quel mentre si udì picchiare all'uscio. Il Martini andò ad aprire, colle solite cautele. Erano altri cinque che giungevano al ritrovo.

 Trentuno!  disse il tenente.  Vuol forse Ella che io vada a dare un'occhiata agli altri, nella cantina di rimpetto?

 Sì, da bravo. Martini, andate!

E ciò detto, Lorenzo si diede a passeggiar per la camera, dopo aver accettato dalle mani di uno della brigata un bicchiere di vino, del quale non bevve altro che un sorso. Poco stante, fu di ritorno il tenente.

 Orbene?

 Ventiquattro laggiù, e con questi trentuno, cinquantacinque in tutto.

L'animo di Lorenzo s'era già acconciato a questa mala sorte; epperò il giovane comandante non si fermò a fare altre malinconiche considerazioni sulla scarsezza del numero. Entrato in una cameretta attigua, insieme col Martini e col Fresia, chiamò i sott'ufficiali presenti all'appello, per far la nota dei congregati e dividere, come si poteva la meglio, le squadre. Erano smilzi manipoli, ma bisognava contentarsi. Quanto agli uomini che ancora potevano giungere innanzi l'ora della mischia, Lorenzo comandò che dovessero entrare nelle squadre meno numerose.

Non dissimilmente si adoperò nella casa dirimpetto, dov'erano uffiziali il Nava e il Doberti. Intanto, i seduti a desco e i dormenti sulla paglia furono chiamati a star su, salvo tre o quattro che, non potendo reggersi pel vino cioncato, sarebbero stati d'impaccio anzi che d'aiuto ai compagni; e si venne alla distribuzione delle armi e delle cartucce.

Parecchi si lagnavano che i fucili fossero grami. E certamente avrebbero potuto essere migliori. La più parte eran a martellina, colla pietra focaia; lo scatto in alcuni era troppo duro, e a far battere il cane sulla martellina occorreva il pollice di Alcide; in altri non c'era verso che volesse stare sulla tacca di riposo: tutti avanzi di botteghe di armaiolo, eredità di guardia civica, notevoli a vedersi per le fascette e i guardamani di ottone.

 Ma questi son cassoni, non fucili!  diceva uno.

 Che cassoni?  soggiungeva un altro.  I cassoni son buoni da ardere, e questi non farebbero fuoco neanco a scaldarli in un forno.

 Ci vuol pazienza, amici!  diceva Lorenzo, che incominciava a perderla.  Voi sapete che la rivoluzione non è ricca; i fucili buoni potrete guadagnarveli là, dove andremo; ce ne sono di eccellenti.

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