Ha una figlia; rispose Arrigo.
Ah! Il fiore appena sbocciato; disse lo zio Cesare, sospirando da capo. E l'ami?
La voglio.
È un po' diverso, ma potrebb'essere, in certi casi, lo stesso. Ma, scusami, e quell'altra? Povera donna
Oh, Dio mio! Ce ne son tante, di queste povere donne!
E perchè ce ne son tante, tu vorresti aggiungerne un'altra?
Infine, disse Arrigo, vedendo che lo zio si rabbruscava, non credere che ella mi ami. Mi ha detto, anzi, che tutto ha da finire tra noi.
Giuramelo! che cos'hai di più sacro?
Per la memoria di mia madre; rispose Arrigo.
Il vecchio si rasserenò, udendo l'invocazione, che non poteva essere bugiarda.
Quand'è così; riprese, tanto meglio! In fondo, non mi mettevo io a predicare la costanza nella illegalità? Bei consigli da vecchio! Or dunque, mio bell'Arrigo, sebbene mi dispiaccia un pochino di rifar la vita dei salotti e delle conversazioni, spendimi pure; sarò il tuo uomo. E dimmi, ci sono già vincoli, in aria?
No, disse Arrigo, che aveva capito a volo, ma potrebbero venire. C'è un conte che mi dà noia.
Sei amato?
Credo.
Ma bravo! E navighi così, tra questa e quella, tra la riva e gli scogli?
Credi, buon zio, che sono assai più vicino alla riva.
Ehm! rispose il Gonzaga. Se debbo giudicarne da poco fa, tu rasenti ancora troppo gli scogli.
Arrigo diede in uno scoppio di risa. Passato il pericolo, anche un marinaio può ridere così.
Caro zio! esclamò egli, abbracciando il vecchio cortese. Sei giovane, tu, pieno di fuoco. Ci scommetto che a te piacerebbe più lo scoglio, anche a rischio di dare in secco.
In secco, no! rispose lo zio Cesare. Ma via, non mi far parlare come il tuo conte di Castelbianco.
Ridevano le due età, così lontane l'una dall'altra, che la voce del sangue aveva ravvicinate. Arrigo Valenti intravvedeva la vittoria e già gli pareva di metterle la mano nei capegli. Cesare Gonzaga era in fondo un po' triste, perchè aveva trovato il suo nipote troppo savio, troppo calcolatore, forse per eredità di esempi paterni; ma infine, ci aveva trovato anche qualche sentimento gentile, soave eredità di sua madre, che gli affari di banca e le vanità sociali non avevano intieramente soffocato. Del resto, egli era venuto, e con la sua autorità di zio sperava di richiamarlo sul retto sentiero. Arrigo, a buon conto, era ancor giovane, e amava la figliuola di Andrea Manfredi, del suo amico, del suo compagno di studi, del suo fratello d'armi, del suo
Ma un'altra scampanellata all'uscio di casa interruppe la conversazione dei due personaggi, ed è giusto che interrompa anche il periodo al narratore.
Ritornava il signor Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, cavaliere compitissimo e disgraziato per giunta. In un'ora aveva dato sesto alle cose sue, e giungeva trafelato, quantunque fosse andato e tornato in carrozza.
Sono allegri! diss'egli, entrando nello studio e trovando zio e nipote ancora in atto di ridere.
Ma sì; rispose Arrigo. E tu, Orazio, hai una cera da funerale.
Orazio Ceprani tentennò malinconicamente la testa.
Eh, credi, caro mio, rispose egli, che ottantamila lire non sono come un mucchio di soldi nella scodella di un cieco. Che liquidazione si prepara! Anche tu, scusami, non hai mica da stare allegro!
Perchè? chiese Arrigo, chiudendo gli occhi a mezzo e allungando le labbra, con quell'aria di cortese ironia che abbiamo già veduto, al suo primo apparire nello studio.
Perchè il Verni è fuggito, a quanto dicono, e credo ti levi di tasca un ventimila lire.
Una bella somma! notò Cesare Gonzaga. Una povera famiglia ci camperebbe dieci anni.
Pazienza! rispose Arrigo, sorridendo ancora, sorridendo sempre. Il Verni, per tua norma, io lo avevo già calcolato tra i dubbi. Caro mio, non ci ha da esser niente di impreveduto nella vita di un uomo. Si studiano dapprima tutte le probabilità, favorevoli e contrarie, e poi si giuoca la posta. Così, vedi, Orazio, questa perdita io l'avevo preveduta. Ho venduto a lui, sapendo in anticipazione di perdere, per non aver l'aria di un taccagno. Il Verni frequentava la migliore società. Ora, ecco un uomo in mare. Me ne duole per lui; quanto alla perdita
In quel momento Happy era comparso sull'uscio per dire:
Il signor cavaliere è servito.
Sta bene, ripigliò Arrigo Valenti. Quanto alla perdita, essa non c'impedirà di fare una buona colazione, se il cuoco non è fuggito, o non ha perduta la testa. Zio, per farti strada!
E passò avanti, il felice Arrigo, e gli altri due lo seguirono nella sala da pranzo.
IV
La contessa Giovanna Morati di Castelbianco, presso la quale andremo ad aspettare i nostri personaggi, con la certezza di conoscerne altri parecchi, fior di cavalieri e di dame, la contessa Giovanna, dico, era una bella donna sui trentadue. È una brutta cosa, lo so, contar gli anni alle donne; ma i narratori hanno dall'ufficio loro il triste obbligo di essere più noiosi dei presidenti di tribunale; i quali, almeno, procedendo all'interrogatorio di una bella testimone, possono incominciare, quando sono galanti, press'a poco così:
Signora, quanti anni ha? Ventidue, non è vero?
Dunque, la contessa Giovanna ne aveva già trentadue; età, dopo tutto, in cui la bellezza è giunta al suo pieno rigoglio, e può ancora aspettare una lieta maturità. Una bell'alba, sicuramente, ha i suoi pregi, e piacerebbe anche al re Saulle, che fu, come sapete, l'uomo più scontroso e bisbetico della storia. Ma un sole al meriggio, Dei immortali! Un sole al meriggio scotta. E la bellezza della contessa Giovanna era proprio così, per testimonianza di molti, che s'erano argomentati di godere accanto a lei d'un calor temperato; scottava senz'altro. Molto grave, tuttavia, sotto le mostre di una conversazione arguta e di una affabilità costante; più grave allora, quasi melanconica, e in certi momenti anche triste. Pareva che la sorte, concedendole la ricchezza e lo sfarzo di una condizione invidiata, le fosse stata avara di ciò ch'ella avrebbe desiderato assai più, come a dire una felicità più modesta e più ignota. E taceva, nondimeno, il suo intimo tormento; e si padroneggiava, obbligata com'era a ricevere, a sorridere, a dir parole garbate; ma in quell'ufficio di cortesia si indovinava lo sforzo, e quella sera più che mai.
Povera donna, mal maritata! Sentite i discorsi che le faceva, dopo tavola, il suo signore e padrone. Avevano pranzato un poco prima del solito, perchè ella avesse tempo a disporre ogni cosa per il suo tè. Era un tè semplice e semplicemente annunziato; ma diventava sempre, aiutando il numero dei convitati e le voglie della gioventù, un tè danzante. Si dice danzante, o danzato? Nè l'uno, nè l'altro, probabilmente; era invece un tè, che quando c'eravate tutti voi, insieme con tutti noi e con tutti loro, si tirava discretamente nell'ombra, e lasciava che da una parte si ballasse, dall'altra si giuocasse, e più in là si trovasse anche una succulenta imbandigione, la quale non so perchè non si chiamasse cena a dirittura. I tè, chiamati anche martedì, della contessa Giovanna, duravano dai primi di gennaio fino agli ultimi di febbraio, e godevano di una riputazione straordinaria; ma non ci si era ammessi molto facilmente, e il numero dei cavalieri non oltrepassava d'ordinario i cinquanta, tra vecchi amici di casa ed altri, che, avendo conosciuto i Castelbianco in qualche società e portato al palazzo della contessa due biglietti di visita, erano stati ricambiati da un biglietto di visita del conte. Le amiche e nemiche intime di Giovanna, quasi sarebbe inutile il dirlo, accorrevano tutte, e, sebbene non ci fosse la pretesa di un ballo, ci andavano in grand décolleté. Dico la cosa in francese, perchè non c'è in italiano, e se c'è, non mi piace trovarla.