Various - La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte III стр 6.

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Chi era quest'uomo, che osava tanto e in un'ora così disperata?

Compromesso nell'impresa Murattiana del 1815, avea esulato in Isvizzera; colà avea tenuto alto il nome italiano e, facendosi largo coll'ingegno e gli studi, era salito ai primi onori della repubblica. La sua fama, come scienziato, pubblicista e uomo di Stato era già europea, quando nel 1833 era andato a Parigi, chiamatovi dal Guizot, che gli affidò la cattedra di economia politica nel Collegio di Francia. V'era rimasto fra molto favore e non poche contrarietà, ma le aveva vinte tutte, e nel 1839 era Pari di Francia, nel '44 Ministro di Francia a Roma. Come tale, avea assistito alla morte di Gregorio XVI, ai primordi di Pio IX, e vi avea assistito, fedele interprete della politica francese, ma in pari tempo con quel cuore di patriotta e d'italiano, per cui, rivalicando le Alpi dopo quasi trent'anni d'esilio e rivedendo l'Italia: «ho pianto, diceva egli stesso, come un fanciullo,» e nel 1848 avea benedetto suo figlio, che andava volontario in Lombardia a combattere contro gli Austriaci. Di tuttociò sono documento splendidissimo la sua corrispondenza diplomatica e privata col Guizot e le sue lettere a Teresa Guiccioli, scritte quand'egli, dopo la Rivoluzione francese del febbraio, era rimasto in Roma da privato, nell'una e nell'altre delle quali appariscono tutta la profondità, la sapienza, la finezza, l'eleganza d'ingegno di Pellegrino Rossi, e insieme la grandezza d'animo, con cui considera uomini e cose del suo tempo; qualità tutte, rivelate persino dai vari motti del Rossi, così veri e scultorii, suggeritigli dagli avvenimenti, che gli passano sott'occhi e che ho citati via via per concludere che se si ricongiungono quelle qualità di animo e d'ingegno colla probità laboriosa della sua vita pubblica e privata e collo straordinario ardimento di opporsi solo, e mentre tutti gli uomini più eminenti del partito moderato si ritraggono timidi e sfiduciati, di opporsi solo, dico, alla fiumana reazionaria e repubblicana, che irrompe da ogni lato e salvar Roma e forse con essa l'Italia dalla rovina, Pellegrino Rossi è indubitabilmente il solo grand'uomo di Stato, degno di questo nome, che l'Italia abbia avuto prima e dopo il Conte di Cavour.

V'ha chi oppone ch'egli tentò l'impossibile, e lo tentò, perchè imbevuto di quel dottrinarismo, che aveva appreso alla scuola del Guizot. Senza negare gli errori del Guizot e dello stesso Rossi, confesso che non partecipo punto al disprezzo dei cosiddetti uomini pratici per la dottrina e alle loro ammirazioni per certi estemporanei della politica, che la corruzione del parlamentarismo fa spuntare (purtroppo per noi, che siamo l'anima vilis dei loro esperimenti) sempre più fitti e più solleciti che mai. Che se il Rossi tentò l'impossibile, dirò che l'impossibile tenta appunto, come una fata morgana, ingegni ed animi pari al suo. Gli altri (oh non ne dubito!) preferiscono serbarsi ad occasioni più facili.

Comunque, ch'egli tentasse l'impossibile non dovette allora essere in tutto l'opinione de' suoi avversari, se per fermarlo ai primi passi non trovarono altro mezzo che ucciderlo e ucciderlo prima (fu una delle grandi preoccupazioni degli assassini e dei loro mandanti) e ucciderlo prima che egli aprisse bocca nel parlamento, da lui riconvocato pel 15 novembre 1848.

V'ha chi oppone ancora: «e s'egli fosse riuscito? Chi sa quando e come si sarebbero potute raggiungere l'unità d'Italia e la fine del poter temporale dei Papi?» Ah! si crede proprio che i primi e veri autori di questi trionfi nazionali siano i dissennati, che spinsero Carlo Alberto a Novara, o gli scellerati, che trucidarono Pellegrino Rossi il 15 novembre 1848? In verità che, a ragionar così, la storia diviene un bel coefficiente di moralità pubblica e privata! Pel Rossi però c'è una considerazione, che dovrebbe, se non altro, ammansare questi terribili conseguenziarii della storia ed è che i Monsignori Romani (lo dice il Cantù, autorità non sospetta) esecravano il Rossi non meno dei demagoghi e che nascosero così poco la loro gioia per quell'eccidio (lo dice il Padre Curci, allora Gesuita) che molti credettero in quel tempo e credono anche oggi alla loro complicità.

La lucidità, la precisione, la rapidità dei provvedimenti, che Pellegrino Rossi prese subito per frenare l'anarchia dilagante per tutto e infondere nuova vita a un cadavere furono meravigliose. Fra tanta dissoluzione d'ogni utensile di governo e tanta inerzia della parte migliore della cittadinanza, mentre in Roma il clericalume ribaldo lo odia, perchè egli ne combatte gli abusi e i privilegi, e la demagogia, rinvigorita dei gregari peggiori, che vi colano da ogni parte, lo assale, lo insulta, lo minaccia, lo scredita ogni giorno, come un rinnegato italiano, che per ambizione e avidità di lucro s'è fatto strumento di tirannia, egli affronta l'uno e l'altra all'aperto; dice chiaro il suo pensiero, non nasconde nulla de' suoi propositi, non indietreggia mai, tocca a tutto, accenna a rinnovar tutta la vita e l'organismo d'uno stato, che non ha più nè organi, nè vita. Con questo minaccia egli forse la libertà? No, certo! Non solo lascia a Roma infuriare una stampa, di cui nulla si può immaginare di più tristo e di più forsennato, ma discute anzi pubblicamente con essa, ed eletto Ministro alla metà di settembre convoca pel 15 novembre le Camere. Gli si rimprovera di aver voluto esser solo e far tutto. Ma chi dovea egli associarsi, se tutti lo lasciarono solo, e chi adoprare, se nessuno valea quanto lui? Un uomo, che si mette a tale sbaraglio, è naturale, che abbia grande coscienza delle proprie forze e se per indole il Rossi era fiero, sprezzante, sarcastico, ognuno ha i difetti delle proprie virtù e i suoi avversari non potevano certo inspirargli atteggiamento migliore.

Resta la sua politica estera, che si riassume tutta nei negoziati per la lega fra gli Stati italiani. È singolare che il rimprovero di non averla conclusa gli venga principalmente dai Mazziniani, che a quest'ora a nient'altro pensavano, se non a proclamare la repubblica unitaria in Roma, e dai Piemontesi, che appunto ora avevano sconfessato il Rosmini, loro ambasciatore, il quale l'avea quasi conclusa, e null'altro volevano se non un contributo immediato d'uomini e di denaro per la ripresa della guerra. A che pro la lega dei Principi per chi voleva abbatterli tutti? A che pro il contributo d'uno Stato disfatto e perchè, se il Rossi, al pari del Gioberti, del Rosmini, di tutti i maggiori uomini italiani, giudicava una follìa disastrosa romper di nuovo la guerra all'Austria? Fatto è che il progetto sostituito dal Rossi a quello del Rosmini ha ben più l'aria di una dilazione, che d'altro, siccome il Congresso federativo promosso dal Gioberti a Torino non fu in sostanza che un'accademia, e la Costituente bandita a Livorno dal Montanelli non fu che il preambolo della repubblica del Mazzini.

S'approssimava intanto il giorno della riconvocazione delle Camere, e per più segni era chiaro al Rossi che i demagoghi volevano tentar in Roma per quel giorno un gran colpo. Si provò a indebolirli e scomporli; ma se mandò in provincia la Legione Romana dei reduci di Vincenza, i peggiori rimasero e s'aggrupparono intorno a Luigi Grandoni; se confinò qualche esule Napoletano dei più torbidi, essi arrivarono a mala pena a Civitavecchia; se disperse uno o due caporioni di congiure occulte o palesi, essi non s'allontanarono quasi, o stettero col piè levato al ritorno; se chiamò Carabinieri e ne fece mostra per le vie, poco c'era da contare sulla loro fedeltà; se processò qualche giornale, aizzò vieppiù le loro ire; se mandò il generale Zucchi contro i facinorosi delle provincie, si tolse da vicino il solo uomo, che avrebbe opposto petto di soldato alla ribellione.

Che cosa rimaneva al Rossi? Il suo coraggio, che in questa inefficace sproporzione, e certamente erronea, dei mezzi col fine, tanto più si palesa qual'era, quello d'un eroe.

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