Various - La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I стр 4.

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Ma prima che ciò fosse, doveva l'Italia discendere tutta intera la via dolorosa della politica decadenza, sino all'annientamento suo in espressione geografica, terra di morti, nazione da carnevale, paese (tutt'al più) dove i poeti venissero a veder fiorire il cedro e l'arancio, il mirto e l'alloro: dovevano i suoi Stati esser ridotti alla condizione di merce quotabile e permutabile nel mercato della diplomazia europea: dovevano, non per la gloria del nome italiano, ma per la vita nostra utile di nazione, andar frustrati e dispersi il lavorio scientifico sperimentale del secolo XVII; il movimento di civili e sociali riforme del XVIII, che anticipava negli ordini ideali la rivoluzione francese; e finalmente, doveva non essere per l'Italia che una fuggitiva luminosa meteora il grande travolgimento napoleonico: nel quale però il braccio italiano si ritemprava alle armi, e il Regno italico non rinnovava soltanto una memoria od un nome che suona nazione, ma rifioriva senno e operosità di cittadinanza cosciente, e la corona di Monza cingeva, per que' pochi anni di gloria e di ebra violenza, la fronte cesarea dell'abolitore del Sacro Romano Impero.

Col secondo decennio del secolo che ora tramonta, e propriamente con l'infausto 1815, il ribadimento delle imperiali catene trisecolari, la servitù dei popoli concordata in Santa Alleanza dalle Potenze, la sanzione del Pontefice, restaurato re, a quest'altra riattiva violenza, furono i provvidenziali flagelli, sotto il cui stimolo la coscienza nazionale si svegliò finalmente, per non assopirsi più mai. Ammaestrava gl'Italiani tutto un passato d'illusioni, di sventure, di errori, di colpe, dominato fatalmente dalla bugiarda idealità dell'Impero, che subordinando l'Italia ad una sopravvivenza nominale di Roma pagana, aveva insieme e impedito la sua personalità reale di nazione moderna, e soggettata la Chiesa di Gesù alle funzioni d'un ministero essenzialmente politico. Ammaestramento che era sublimato dalle eroiche prove, confermato dalle repressioni sanguinose, consacrato dal martirio: le fosse dello Spielberg, le forche di Modena, i Bandiera fucilati a Cosenza, preparavano l'era nuova d'Italia. Il moto dei popoli sforzava la coscienza dei principi: e la prima guerra d'indipendenza, che si svolge tra la benedizione del Pontefice piamente ribelle, per breve ora, all'Impero, e il sacrifizio del Re che, devoto al patto giurato, non abbandona il campo dell'ultima battaglia che per cercare l'esilio di Oporto; quella prima guerra, in cui tutta Italia, se non ancora con le armi, ma coi cuori, combatte; alla quale Milano dà le cinque giornate, Toscana i giovanetti veterani di Curtatone e Montanara, Messina Venezia Roma gli assedii gloriosi, Palermo e Bologna i vittoriosi impeti del braccio plebeo, Brescia lo strazio de' suoi eroici insorti, Napoli le sue galere nobilitate dal fior dell'ingegno e del cuore, e il Piemonte tutto sè stesso: quella guerra, di nazione e di popolo, annunzia al mondo che l'Italia ha finalmente ritrovato il vero esser suo. La sconfitta delle armi è vittoria dell'idea: lo spergiuro dei Principi, legittimi per convenzione diplomatica, ma non nel diritto storico della nazione, toglie di mezzo il generoso equivoco di quel primo movimento: e la questione italiana, imposta ormai alla vecchia tenace Europa di Carlo V e di Metternich, la questione italiana maturata con ben altri auspicii nel decennio di preparazione alla guerra seconda, trionferà in questa e nelle sue conseguenze, e trionferanno con essa il diritto e la civiltà. Nel marzo del 1861 l'Italia, nel suo primo parlamento, proclama il suo Re e la sua capitale. E quando l'Emanuele della nazione mancherà, innanzi tempo, ai destini di lei rivendicata e costituita, non ne accoglieranno la salma lacrimata i sotterranei dell'avita Superga, ma il Pantheon d'Agrippa, il grande monumento imperiale, darà in Roma cattolica la tomba legittima all'unificatore d'Italia: legittima in Roma, e non altrove che in Roma, al cui nome politicamente abusato fu incatenata per secoli, con doppia catena, la statuale esistenza d'Italia e la sua unità di nazione.

Se l'alba d'un lieto giorno spunterà mai, che annunzi conciliate, nell'augusta serena libertà del pensiero, le energie della fede e della scienza verso il divino ignoto che, volenti o ribelli, consapevoli o ignari o dimentichi, ci predomina tutti; quel giorno incoroneranno quella tomba i fiori d'una primavera italica, che noi non siamo destinati a vedere; e la civiltà umana, novellamente attratta verso la cosmopoli eterna, segnerà forse dall'unità d'Italia un nuovo ordine di secoli, nel quale sia restituita ai popoli anche la consolatrice unità del consentire almeno in una speranza non offuscata da vapori mondani.

IV

Ma questa unità d'Italia, che si è svolta latente, avanzando sempre per progressi e regressi, finchè, giunta l'ora sua, si è rivelata come il termine destinato e non removibile, al quale, e solo a quello, si doveva arrivare; questa unità, che già da secoli sarebbe stata l'ordine, quando gli elementi dell'organismo nazionale si attraevano per natura, e per contingenza si respingevano; sarebbe stata la pace, quando le discordie bruttavano di sangue fraterno le nostre contrade; sarebbe stata la forza, quando gli stranieri vi calavano alla preda; la unità nazionale fu, siccome quella necessità che era, fu ella intuita da quel grande anticipatore dei fatti umani, che è l'umano pensiero? fu, in quel doloroso secolare problema di «essere o non essere» che pareva sciogliersi col «morire, dormire null'altro», fu ella il sublime «sognare forse» con che Amleto riattacca il filo della vita? sorrise la unità nostra alla fantasia di quei profeti delle nazioni, che sono i grandi poeti? suscitò, prima del secol presente, alcuni di quei generosi tentativi, la cui vittima trasmette all'avvenire, con la vendetta, la riuscita? A queste domande fu risposto con più d'una di quelle diligenti e sottili analisi che caratterizzano gli studi nostri in questo scorcio di secolo; e che a me, nel conferire, gentili Signore, con voi, altra parte non lasciano che di condensarne in breve tratto le conchiusioni somme, e lumeggiarne qualche figura.

Quella «umile Italia», che i compagni d'Enea salutano, nel verso di Virgilio, dall'alto mare, come la meta della venturosa peregrinazione in cerca d'una patria seconda; e che nel verso di Dante accomuna gli eroi della guerra laziale, «Camilla Eurialo Turno e Niso», coi nuovi destini italici, che il Poeta dei Guelfi Bianchi augura dalla ricacciata della negra Lupa curiale nell'inferno per opera del Papa Angelico che il Medio Evo inutilmente aspettò; è, quella Italia de' due sacri poeti di nostra gente, è, ben dessa, la figura d'una patria unica, che si sposò fedelmente alle immaginazioni di quanti, con dolente pietà di figliuoli o con fierezza di propugnatori del materno diritto, han poetato di patria nella lingua del sì. Patria unica, che si sovrapponeva idealmente alle condizioni di fatto della penisola italiana. Dante, che sollecita l'Imperatore a «drizzare Italia», e compiange che non sia ancora a ciò «disposta» questa «Italia, serva» non tanto, per allora, di genti straniere, quanto della guerra intestina che «intorno dalle prode delle sue marine», e nel «seno» suo, la diserta: il Petrarca, che su «le piaghe di quel bel corpo» sospira, e vuol essere interprete delle «speranze» che dalle rive del Tevere, dell'Arno, del Po congiuntamente si levano a Dio: l'Ariosto, che impreca alla calata delle «Arpie» straniere sulle mense d'Italia, invocando il giorno ch'ella richieda ai «figli neghittosi» la sua libertà: il Tasso che vagheggia la unione delle «voglie divise e sparse» da tutto il paese che «i monti e i fiumi» dividere non possono, perchè «quel che partì natura, amor congiunge»: e nello sfacelo d'Italia lungo il Cinquecento fatale, la voce d'un virtuoso prelato, il Guidiccioni, che in nobilissimi versi consacra al medesimo rimpianto la violata libertà nazionale e il disonor dell'Impero e la fede pericolante di Cristo: e poi, nell'aggravarsi della servitù e della decadenza, i cortigiani stessi di quei principati sotto tutela, levarsi contro la obbrobriosa tirannide iberica, e convertire come il Tassoni la poesia giocosa in filippiche per il conculcato diritto d'Italia, e volgersi con arcano presentimento a un Duca irrequieto e valoroso di casa Savoia, Carlo Emanuele I, che risponde ancor egli con versi italiani: e da quelle medesime aule, sia di corte sia d'accademia, qualche alata apostrofe di retorica generosa, o sulla culla d'un Principe pur di cotesta Casa acclamare col Manfredi «Italia, Italia, il tuo soccorso è nato», o deplorare nel sonetto del Filicaia la «funesta bellezza» che le ha tirato addosso, con le straniere cupidigie, la condanna di «servir sempre o vincitrice o vinta»: finchè l'Alfieri, prenunciatore della libertà che si approssima, dedichi l'opera sua tragica e fatidica «al popolo italiano futuro»: è tutta, insomma, una non interrotta comunicazione come di una sacra parola, di secolo in secolo, da Dante all'Alfieri, la quale attesta e proclama una Italia, che impedita d'essere nel fatto, vive, come nel decreto divino, così nel cuore e nella fantasia de' suoi fedeli poeti.

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