Various - La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I стр 4.

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Firenze, o che sia libera Milano, o che lo Stato del Papa non sia a discrezione nè di stranieri nè d'italiani: questo soprattutto che uno Stato italiano, per forza sua o d'alleanze non prevalga sugli altri, cosicchè quando le ambizioni di Venezia si volgono alla terraferma, nessun straniero pare più minaccioso di lei alla cosiddetta libertà d'Italia, nessuna preponderanza è più temuta e più contrastata della sua.

Dopodichè, nell'età degli Stati non solo non c'è tradizione nè unitaria, nè federale, ma non c'è più politica propria di nessuna fatta. La politica d'ognuno di essi è, a seconda dei casi e dei tempi, francese, spagnuola, austriaca, e il popolo italiano perde persino ogni coscienza dell'esser suo. L'Italia, che pur ha così forti e spiccati segni d'individualità nazionale, essa stessa (molto prima che il Metternich lo dica) si lasciò ridurre nell'età degli Stati un'espressione geografica. Questa divisione dell'Italia, che era di quasi ottanta Stati, ridotti a dieci dopo le guerre di successione e la pace d'Aquisgrana, e non per opera certo degli italiani, ma degli stranieri, questa divisione nazionalmente non ricorda nulla, non rappresenta nulla. Parlando della sola Toscana il Giorgini scriveva nel 1861: «Io conosco tradizioni, glorie fiorentine, senesi, pisane; ma non conosco che umiliazioni e miserie toscane!» Il medesimo si potrebbe dire, e forse con più ragione, delle rimanenti parti d'Italia. E, per concludere, è opportuno notare che tutti gli spigolatori di tradizioni unitarie e federali nella storia d'Italia sono, non volendo, caduti in questo abbaglio singolare, che mentre credono indicare le traccie saltuarie e interrotte dell'uno o dell'altro concetto, altro non fanno che enumerare più o meno compiutamente le cagioni grandi o piccine, per le quali nè unità, nè federazione non sono mai state possibili.

Se non che, battuti sul terreno dei fatti, si rifugiano nelle visioni dei pensatori, nei vaticinii dei poeti, o tentano far passare per un principio almeno di unificazione nazionale le ambizioni di qualche principe, che approfittando di contingenze favorevoli voleva ingrandire lo Stato. Quanto alle visioni dei pensatori e ai vaticinii dei poeti, il fatto è vero e giovò certo a tener vivo qualche barlume di sentimento nazionale, se non altro, in qualche ristretto cenacolo letterario, ma ricollocati ognuno nel proprio tempo hanno essi veramente il significato che si suole loro attribuire? o qual maraviglia in ogni caso che ingegni ed animi eletti sorpassino la realtà che li circonda, e si slancino nell'utopia inapplicabile o nelle profezie, che non si verificano? può questo fatto da solo costituire una tradizione storica?

L'unità d'Italia per Dante Alighieri è l'unità dell'Impero restaurato, unità di giurisdizione suprema, non unità di Stato, dalla quale è difficile arguire che il misterioso Veltro, da lui profetato, potesse mai poco o molto rassomigliare prima a Napoleone, poi a Pio IX e finalmente a Vittorio Emanuele o a Garibaldi. Ma Dante è nel suo tempo e va considerato nel suo tempo, anche se il poema divino è, e deve essere per sempre, la bibbia nazionale degli Italiani.

Egli, difatto, ebbe per primo forse vera coscienza d'una nazionalità italiana. L'ebbe, perchè compose, si può dire, l'unità della lingua italiana, perchè mostrò di conoscere l'importanza etnografica e civile della nostra comunanza di linguaggio col verso: «Il bel paese là dove il sì suona», comprendendovi la Sicilia e il Trentino, perchè finalmente la penisola fu da lui descritta ne' suoi precisi confini geografici. Ma fuori di questo, e rifacendoci al suo concetto politico, egli invoca la calata d'un Imperatore, affinchè riconduca la pace, quella pace imperiale, che è quanto dire universale, in cui forse abbozzava un pensiero di fraternità umana. L'ideale suo grande è la pace; sono sempre le discordie politiche, ch'egli flagella, e gli pare che cesserebbero d'imperversare, se l'Imperatore ritornasse alla sua Roma. Quando sospira la venuta di Arrigo VII, Dante sa bene che esso non verrà a fare l'unità italiana. V'ha anzi chi ha persino creduto che

Dante sperasse in detta occasione una confederazione. Non credo. Egli non ha sperato e voluto che la pace, tant'è che non altro consiglia a popoli e principi; e, il solo mezzo di mantenerla, è per lui il riconoscimento dei diritti dell'Impero. Dante afferma bensì la nazionalità italiana, ma non discute l'assetto politico della nazione: per lui Roma è la sede dell'Impero, la monarchia universale è necessaria siccome istituita da Dio per la pace del mondo, senza cui l'uomo non può conseguire il proprio fine e la beatitudine eterna. Oltrediché quella monarchia è per lui la continuazione e il perfezionamento dell'Impero Romano. Così Dante è nelle sue idee e nel suo tempo.

Il medesimo è da faro col Petrarca, che nell'anarchia dei tribuni, dei signori e dei condottieri, fra la quale è condannato ad andare peregrinando tutta la vita, non lascia precisare affatto il suo sistema politico, perchè le sue speranze si fissano ora in Cola di Rienzi, ora nell'Imperatore Carlo IV, ora in Roberto d'Angiò, ora in Luchino e Galeazzo Visconti, e, mancati tutti a un per volta i suoi idoli, finisce esso pure nell'idillico:

Io vo gridando: pace, pace, pace;

il consiglio purtroppo più inutile da dare ai discendenti di Abele e Caino.

Chi può negare che uomini così grandi, rientrando in sè stessi, abbandonandosi alle proprie aspirazioni e speculazioni, non contemplino e non profetizzino ideali di redenzione della patria, superiori a quelli di tutti i loro contemporanei? Ma da questo al collegarli con ciò che è accaduto nel tempo nostro ci corre, e a furia d'interpretazioni arbitrarie ed anacronistiche si rischia di non comprenderli e svisarli del tutto.

Molto più moderno è certamente il Machiavelli, ma anche con lui si oltrepassa, si violenta il senso genuino dei fatti contemporanei, quando si afferma che pur d'ottenere l'unità d'Italia avrebbe magari accettato per re d'Italia Valentino Borgia. Leggete il libro del Villari e vedrete che Valentino Borgia non è pel Machiavelli il personaggio reale, che deve fare l'unità d'Italia, bensì il tipo, che con alcune delle sue qualità personali gli inspira il concetto, che occuperà poi tutta la sua vita e dominerà in tutti i suoi scritti, il concetto cioè d'una scienza di Stato separata e indipendente da ogni considerazione morale. Il Machiavelli fa per tal guisa del Valentino un personaggio ideale, ma del Valentino vero giudica come merita e l'ha per un furfante matricolato, degno figlio di Papa Alessandro, di cui giudica egualmente. Tant'è che della meschina catastrofe del Valentino in Roma, il Machiavelli, che era allora in Roma esso pure, non si dà quasi per inteso. In conclusione, mentre si usciva appena dall'anarchia medioevale, l'unità, a cui egli mira, è quella dello Stato, non quella della nazione. Perciò i suoi delenda Carthago sono il feudalismo, i soldati di ventura, il potere politico delle corporazioni d'arte, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato, in cui ravvisa, e con ragione, l'ostacolo insuperabile dell'unificazione dell'Italia. In questo senso, se si vuole, il Machiavelli è profeta, in quanto cioè l'unità organica di uno Stato farà l'unità italiana, e di uno Stato opposto al Papa, libero dalla sua ingerenza, non quello cioè, su cui, come sul regno di Napoli, il Papa esercita giurisdizione feudale e di cui si è sempre valuto per gettarlo fra i piedi a chiunque pur di lontano accennasse ad una impresa italiana.

In seguito, che Eustachio Manfredi alla nascita d'un figlio di Amedeo II di Savoia canti in un sonetto:

Italia, Italia, il tuo soccorso è nato;

che Traiano Boccalini e Alessandro Tassoni scrivano con sentimento patrio contro la tirannide spagnuola, che questo sentimento riecheggi nei versi di Fulvio Testi, del Filicaia e di tanti altri sta benissimo ed è giusto che loro rendiamo la lode e la gratitudine, che meritano. Ma s'hanno a vedere in ciò i prodromi dell'unità italiana compiutasi fra il 1860 e il 1870?

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