Ernesto Rossi nel 1850, a Trieste, corse rischio di esser fucilato davvero dai Croati che dovevano fucilarlo per chiasso nel finale del Generale Ramorino; buon per lui che, innanzi di andare a morte, volle si riscontrassero le cartucce! Ma se questo fu uno spettacolo d'occasione, Il vetturale del Moncenisio fu dato a Milano, in quel torno di tempo, ventiquattro sere di seguito. E allora un capitano dei bersaglieri a Torino, Andrea Codebò, mosse le baionette aguzze del suo rapido ingegno, contro I drammi francesi, in una parodia che appunto così da loro ebbe il titolo. Luogo dell'azione (narra il Costetti che bene tratteggiò la figura di lui e di altri scrittori e attori di quel tempo) un camposanto; quivi, in un solo atto, duelli, delirii, riconoscimenti, suicidii: figuratevi che un tale riconosce chi sia un colonnello che egli sta per uccidere, e gli grida: Ah, tu sei dunque il figlio del carnefice di mio padre! Grande fu il successo di codesta satira; ma, come era naturale, non valse contro la moda.
Del resto, col male venne il bene; coi drammacci vennero di Francia buone e belle commedie. Era il 1857; e La vecchia pazza alla Torre del Sangue, La tremenda sfida dei cavalieri della morte al Colle del Terrore, e consimili robe che un capocomico disperato imbandiva al popolino bolognese nell'Arena del Sole, doverono da lui medesimo esser messi da parte (copio anche questo dal Costetti) per dare al pubblico, in un teatro, di gente pulita, come egli diceva, una commedia di Dumas figlio che salvò lui e i suoi dalla fame. Senza estendere l'osservazione di un caso singolo a legge generale, può servire esso caso a indizio di ciò che allora accadeva: lo Scribe, l'Augier, il Dumas, con l'arte abilissima di tutt'e tre, moralmente eletta nel secondo, acutamente filosofica nel terzo, relegavano ne' teatri di terzo e di quart'ordine le reliquie di un teatro spettacoloso che risaliva a' primi del secolo XIX, e conquistavano i teatri migliori pel nuovo repertorio francese, cacciandone via la tragedia classica, ormai anch'essa decrepita, e la tragedia neoclassica e romantica che pur avrebbero potuto, con qualche accorgimento, restarvi utilmente.
Guglielmo Shakespeare, per opera di Ernesto Rossi, della Ristori, del Salvini, ottenne finalmente udienza e favore; ma fornì piuttosto pietre di paragone al raffronto di un artista con l'altro, che fiamma viva a infiammare, come era degno, le fantasie.
III
Vi tedierei inutilmente enumerandovi ora anche soltanto i principali dei drammi in versi che furono applauditi negli anni di cui sto parlando: nulla, dopo quegli applausi, dovuti per massima parte ad attori eccellenti, ha retto a lungo sulle scene, nulla ne è letto oggi da chi non faccia professione di logorarsi gli occhi sulle stampe dimenticate.
Che importa, per esempio, a voi di Aroldo il Sassone di Napoleone Giotti? Era il suo primo lavoro, nel 1846, e lo dedicava al Niccolini: piacque, e tre sere fu dato nel teatro del Cocomero, che ancora non si onorava del nome di lui. E che v'importa della sua Monaldesca? Al Guerrazzi la dedicò il Giotti nel 1853, e furoreggiò: Adelaide Ristori, che ne resse la parte principale, non è difficile credere che ne dovè trarre effetti mirabili; ma cosa più pazza (sia detto col debito rispetto alla memoria di quel pover uomo, morto di recente) non credo facile immaginarla, nè verseggiarla con peggiore rettorica romantica in più rimbombanti endecasillabi. Un po' dell'Hernani e un po' della Beatrice Cenci vi si mischiano nell'azione di un Leonello che, per vendicare un fratello ucciso da un marito geloso, si fa amare dalla moglie di lui, la fa complice dell'assassinio col quale lo toglie di mezzo, e poi le sghignazza in faccia che non l'ha amata mai e non l'ama. Tutto questo con balli mascherati, usci segreti, temporali, e canzonette sulla mandòla.
E meno v'importa, credo, dei drammi di Giuseppe Pieri, e del Francesco Guicciardini, del Dante Alighieri, della Beatrice Cenci, di Pompeo di Campello. Neppure il Nerone del Cossa valse a far rammentare dai critici il Nerone Cesare di lui: mentre invece richiamò l'attenzione di qualcuno al Paolo di Antonio Gazzoletti, gentil poeta ma un poco sbiancato e freddo, come lo definì il Tenca a ragione.
Il Gazzoletti e Antonio Somma (di cui la Parisina, del resto, era uscita nel 1835), e Giulio Carcano ed Ermolao Rubieri, meriterebbero, nella storia di questi tempi, almeno qualche parola. Un Arduino del Carcano sarebbe, per esempio, da raffrontare con l'Arduino d'Ivrea di Stanislao Morelli, che Tommaso Salvini improntò della sua gagliardia e fece tanto applaudire, costringendo (gli scriveva l'autore riconoscente) il pubblico a inchinarsi ad un ragazzo come innanzi ad un gigante. Ma si tratta, insomma, di opere morte da un pezzo e sepolte; gli ultimi guizzi furono esse di un genere destinato a spengersi, in quelle forme, per sempre.
Veniamo a ciò che fiorì, o almeno era degno di annunziare una primavera nuova.
Vincenzo Martini, padre di Ferdinando, fu dei primi a tentare una forma che la necessità del presente e i modelli francesi concordasse con la tradizione italiana. Nel carnevale del '53 Adelaide Ristori ne diè La donna di quarant'anni; cioè la marchesa Malvina; che fin dai cenni dell'autore sui personaggi suoi ci è presentata con «tutta la squisita ricercatezza di vesti e di modi cui si affida una donna elegante sul declinar dell'età.» In quell'anno stesso Il misantropo in società, dove il cavalier Maurizio, a soli ventisette anni, si veste e si atteggia elegantemente, ma ha modi riservati e severi, in curioso contrasto con quelli dello zio marchese Riccardo, che, verso la settantina, mantiene una fresca giovialità. L'anno dopo, Il cavalier d'industria, un tipo d'avventuriero vivamente raffigurato in mezzo al moto d'una società viva di gentiluomini e di speculatori. «Io avrò torto (scriveva il Martini) ma ho per articolo di fede in arte drammatica che la commedia debb'essere il quadro della società e dei costumi: quindi abborro dai grandi colpi di scena, dalle commedie a grande interesse. Chi vuole di questa roba avrà ragione, ma non vada al teatro quando si recita una commedia mia. Il tempo deciderà chi sia sulla vera strada. Io sono convinto (lo dico senza falsa modestia) di essere nel buon cammino, e se casco, come casco pur troppo, egli è per debolezza delle mie gambe, non per avere sbagliata la via.»
Suo figlio Ferdinando, cui la carità filiale non offuscò l'occhio acuto del critico, riconoscendo che Vincenzo talvolta si fermò alla superficie senza approfondire l'osservazione nell'intimo dei costumi e degli animi, ebbe piena ragione a lodare, specie nel Cavalier d'industria, la larghezza almeno di quella osservazione, e ben potè compiacersi di rammentare che Paolo Ferrari già ormai celebre scriveva all'autore di quella commedia: «Voi siete l'ultimo a cui ho detto che vi riguardo come maestro; e perchè l'ho detto a tanti altri che neppur vi conoscono fuor che per fama, mi dovete pur permettere di ripeterlo anche a Voi.» Peccato che poco egli desse al teatro; e peccato che altre cure ne abbiano via via distratto il figlio suo, così pronto e destro osservatore e analizzatore, e così elegante ed arguto maestro del dialogo.
Non mi fermo su David Chiossone che fe' piangere molto; e trascuro, affrettandomi, anche Giuseppe Vollo, veneto, cui, dopo un tremendo dramma in versi La famiglia Foscari, del 1844, nel '55 una certa opportunità dell'argomento e la bravura della Ristori fecero applaudire a Torino I giornali, amarissimo dramma in prosa più tragico che satirico. Li metto da parte perchè, dopo il garbo del Martini, quando insistessi sul Chiossone e sul Vollo, al quale del resto non mancò la forza d'un alto concetto, troppo parrei disposto alla censura e: Che serve, direste, incrudelir coi morti?