Ad ogni modo, per tornare in carreggiata, qualunque sia il genere o la fortuna dell'opera, resta fissata questa legge che la prefazione si fa per l'ultima.
E se non bastassero le prove addotte, basterebbe pensare un poco al preludio di un dramma musicale. Ivi il maestro espone o riassume i motivi principali dell'opera, quasi li racconta ad uno ad uno al pubblico, il quale per lo più non è loro avaro di applausi d'incoraggiamento in principio, quanto è prodigo poi di energici fischi di scoraggiamento alla fine. Ma se l'infelice maestro non avesse già finita l'opera, come potrebbe accennarne i motivi principali nel preludio? È dunque provato che l'esordio si fa dopo la conclusione: il che era da dimostrare.
Da quel che ho detto fin qui, risulta anche provata un'altra affermazione non meno inutile, che cioè la prefazione è una instituzione antichissima.
È chiaro infatti che, le leggi naturali non avendo mai subito alcun mutamento, gli autori della più remota ed incredibile antichità debbano aver avuto le stesse passioni e sofferti gli stessi bisogni che questi moderni. Intendo rispetto alle relazioni col pubblico, e non al contenuto delle opere. Non so se come tutte le invenzioni anche questa ci venga dalla China. Certo se lo merita. Ma ad ogni modo quel remotissimo figlio del Cielo che primo commise una prefazione, fu tratto dal desiderio di parlare di sè, della sua opera e di propiziarsi il lettore, riuscendo come sempre all'effetto contrario, perchè è vero quel che dice il Pascal che l'io è odioso.
Il costume latino, anzi più precisamente italiano, vorrebbe qui che io vi sprofondassi meco nelle voragini della più oscura erudizione, in cerca delle origini della prefazione. Avrete notato infatti che presso di noi non si scrivono poche pagine sopra le cose meno importanti del mondo, se, col pretesto di illuminar bene il lettore, non si risale alle origini del genere umano. I più discreti si contentano della Bibbia. Molte volte vi sarà capitato in mano un opuscolo che parla di un quadro, di un coccio di maiolica o di un arazzo, e avrete visto che una buona metà è spesa a ricordarvi le pitture degli Egizi, i vasi degli Etruschi, e le tele di Aracne. L'autore vi fa subito capire che vi stima ignoranti e v'insegna, bontà sua, che Jubal inventò la musica e Tubalcain la metallurgia. Gli atti e le memorie delle Accademie storiche od archeologiche, ora quasi esclusivamente consacrate allo studio assiduo delle pentole e dei pentolini storici e preistorici, primeggiano specialmente in questo comodo genere di pedanteria. È incredibile come l'uso delle pentole fosse comune presso i nostri lontani progenitori e come fosse grande la malizia loro nel nasconderle sotto terra per fornir materia agli atti accademici; ma è più incredibile ancora l'estensione e la profondità che ha preso ai nostri giorni questa scienza dei pentolini, per cui gli archeologi moderni, dopo aver esposto tutta la storia della ceramica, da certi segni e da certe graffiature sanno dirci appuntino se il coccio fu di un Umbro o di un Ligure, se il vasaio fu bello o brutto, ammogliato o scapolo. Il che importa molto alla umanità ed alla archeologia.
La consuetudine italica del far precedere ad ogni più piccola cosa una storia completa e un profluvio di erudizione, somiglia molto al morbo della prefazione. È sempre un preambolo che si volge bensì alla crassa ignoranza del lettore e non alla sua supposta simpatia, come accade per lo più nella prefazione veramente detta; ma come preambolo deve esser messo cogli altri. Ed anch'io per non esser meno buono italiano e meno felice proemiatore, dovrei seguire questa bella tradizione di erudita seccatura ed infliggervi il supplizio della storia e della preistoria della prefazione. Ma tanta è la cortesia che mi avete dimostrato, e per la quale vi sono gratissimo, che sento l'obbligo di essere umano e vi risparmio la solita risalita della corrente dei secoli, la solita Bibbia e i Fenici e gli Egizi.
Non posso però fare a meno di ricordarvi i Greci, perchè tanto fu lieto il loro beato cielo che vide nascere gli uomini meglio proporzionati del corpo e dell'intelletto che fossero mai. Il buon gusto fiorì tanto e così felicemente sul fortunato suolo dell'Ellade, che il suo profumo penetrò perfino la coriacea compagine della prefazione, la indusse ad esser breve, e gli scrittori che erano Ateniesi nel testo, furono Spartani nel proemio. Tempi invidiabili ed invanamente desiderabili, nei quali Tucidide preludeva alla sua storia con dieci righe, ed Erodoto preponeva alle sue Muse immortali queste sole parole: «Erodoto d'Alicarnasso avendo per ricerche conosciuto tra le altre cose, le cagioni delle guerre tra i Barbari ed i Greci, le scrisse in questi libri e le pubblicò, perchè le cose fatte dagli uomini non siano in progresso di tempo dimenticate, e le azioni preclare e mirabili, così dei Greci come dei Barbari, non siano defraudate della debita lode.» E nient'altro! Nell'originale sono trentanove parole, poco più di un telegramma comune. Oh, se i fati benigni avessero concesso che le prefazioni fossero tutte così, io credo fermamente che l'umanità sarebbe più felice!
I Romani, grandi corruttori d'ogni cosa, guastarono questa aurea e santa semplicità greca, e la prefazione di Tito Livio, per quanto bella, non è più così breve. A poco a poco il decadimento non ebbe più riparo e si giunse a tanto che Cicerone confessa ad Attico di aver pronta una raccolta di prefazioni che possono adattarsi a qualunque libro.
A tanto giunge il demone della prefazione, e c'è chi sostiene che i primi capitoli sallustiani della congiura di Catilina e della guerra di Giugurta, non siano appunto che due prefazioni del genere delle ciceroniane, a doppio uso, come i sofà letti o le canne seggiole, poste in fronte al libro. Tanto e così esecrabile fu l'imperversare della prefazione, che il pubblico irritato, nauseato, si ribellò, e ai tempi di Plinio il giovane le prefazioni erano cadute in disuso. Quanti forse tra voi non si augurano ora il ritorno di quella felice rivoluzione!
Ma la ribellione del pubblico e la sua avversione ai proemi, da Plinio in qua, seguitò vivacissima e per 18 secoli non ha smesso e spero che non smetterà così presto. C'è una guerra, ora sorda, ora fieramente rumorosa tra gli autori e i lettori. I primi hanno bisogno di parlar di sè e dell'opera propria, gli altri non ne vogliono sapere, hanno fretta e stimano perduto il tempo speso nei preamboli. Il commensale che ha l'appetito in resta sdegna i piattini dell'antipasto e si butta ai piatti di resistenza. Chi ha un colloquio, d'affari o d'affetto, se la cosa gli preme, salta il proemio ed entra subito in materia. E gli autori sono tanto ciechi da non vedere che quando si salta la prefazione si fa un elogio al libro, poichè si crede di trovarlo buono e si ha fretta di leggerlo. E che quando si fa sul serio si dimentichino i preamboli, ce lo insegnò quello stesso Cicerone che teneva le prefazioni bell'e fatte e lo confessava senza arrossire. Quando si trovò in faccia, non un avvocato in tribunale, ma Catilina in Senato, e non si trattava più delle ciarle del poeta Archìa, ma della testa che non era molto sicura sullo spalle; Cicerone, l'uomo delle prefazioni premeditate, l'uomo che ispirò al Passeroni un enorme poema che non è altro che una prefazione senza libro, credete voi che ricordasse i precetti dell'oratoria e curasse che la parrucca della rettorica fosse pettinata con tutte le regole? Si faceva sul serio, e saltò a pie' pari nell'argomento e cominciò ex abrupto col celebre quousque tandem. La paura di perdere il capo non gli fece perdere la testa e spettava proprio a lui ad insegnarci con tanta autorità che quando la cosa preme i preamboli sono dimenticati.
Ebbene, il pubblico ha sempre fretta. Vuol conoscere il libro e non l'autore. Questi gli sorride dietro le frasche della prefazione, gli strizza l'occhio e gli dice: guardami come son bello! Ma il lettore vuole il libro e non le smorfie: non cura gli sfoghi del povero autore che ha tanto bisogno di convincere il prossimo della perfezione dell'opera sua, di perorare, di persuadere; ma tira dritto, salta le prime pagine serenamente e comincia il libro. L'autore insiste, ma l'altro fa di peggio. Di qui una guerra accanita, di stratagemmi, di imboscate, d'insidie; qua per immergere proditoriamente un'acutissima prefazione nel cranio del prossimo, là per schivare l'orribil colpo e punire degnamente lo scellerato aggressore. Le peripezie della lotta sono varie e la fortuna alterna. Oggi, per esempio, lo sorti volgono contrarie alla prefazione; il Dio delle battaglie sorride ai lettori. Vedete la poca fortunata resurrezione del prologo nelle commedie. Quando gli eventi della guerra favorirono gli autori, costoro infierirono sui miseri vinti ed inflissero loro il supplizio di questi prologhi che narrano anticipatamente la commedia e le lodi di chi la fece. Mutate le sorti, il prologo fu sepolto a suon di fischi. Ma eccolo, cadavere quattriduano, uscito dalla fossa, così sfiaccolato e bastonato che non c'è bisogno d'esser Profeti o Sibille per predire il suo prossimo ritorno alla pace del sepolcro. Vedete anche il preludio dei drammi per musica, il quale, o arieggia alla concisione greca, o si stacca dall'opera, sotto forma di sinfonia, e tende a vivere di vita propria e non parassitaria. Così abbiamo opere senza preludio e sinfonie senza opera, come segno certo della decadenza della prefazione e dell'abominio in che è tenuta dal pubblico.