Ma era un Metternich buon diavolo.
Accanto a costoro, si schierava in altezzosa dignità, la falange dei conservatori che avevano consigliato e sottoscritto lo Statuto, illustri e sapienti, liberali per natura e generosità di animo, conservatori per tradizione, per scrupolo, per istintiva repugnanza alla democrazia in azione, per timore di esserne soverchiati.
Seguivano i liberali democratici, propensi per indole, per studi, per istintiva saviezza ai consigli prudenti, ma decisi al trionfo dei principii liberali, ad ogni costo; ardenti per la causa italiana, diffidenti di persone e di cose che rammentassero il governo passato, sospettosi della Corte, della nobiltà, dell'alto clero.
Seguivano i democratici ad oltranza, i rivoluzionari per temperamento o per professione, reboanti di declamazioni contro i troni e le chieriche, esalanti verso il barbaro ed i tiranni le più rumorose contumelie, frementi ancora del lievito quarantottesco: santo e benedetto lievito che aveva fatto le barricate, ma che nell'ora melanconica del raccoglimento, dopo la sconfitta, appariva meno opportuno.
Intorno al mondo politico: una nobiltà restìa, un clero avverso, una borghesia scontrosa e un popolo sbalordito da tante novità, che si risolvevano in maggior carico di tributi.
A poche marcie da Torino, l'Austria che vegliava e nulla avea dimenticato.
Per l'Europa correvano ancora i brividi del '48, quando la rivoluzione era penetrata anche a Vienna; era stato appunto codesto scoppio di uragano che avea ribadito in Cavour il convincimento di una politica liberale e progressiva. Ma in quanti pochi a seguirlo!
Poichè la paura dominava gli uni, il furore acciecava gli altri e il vecchio spirito europeo stava coi primi. I principi italiani, nell'Emilia, a Napoli, ne erano incatenati; il papa scagliava l'anatema al Piemonte, e fin la Francia, terrorizzata dal colpo di stato di Napoleone III, appariva nel momento un'incomoda vicina, dalla quale i costituzionali subalpini non speravano consigli ed incoraggiamenti. Doveano star paghi delle lontane e platoniche simpatie dei whigs inglesi.
D'altra parte, non erano spente le ire, ne sopite le audacie dei demagoghi, alleati con tutti i vinti del '48, coi reduci di tutte le insurrezioni, di tutte le barricate: dispersi per la Svizzera, per l'Inghilterra o rifugiati in Piemonte.
Le potenze centrali, Prussia e Confederazione germanica, si tenevano mute, avvinte all'Austria: Niccolò di Russia ricordava all'Europa di essere il depositario del 1815, il personale avversario delle Costituzioni.
Correvano presentimenti sinistri.
L'Ungheria fremeva ricordando i suoi martiri; la Polonia rodevasi, debellata non vinta, e quel tricolore innalzato là, ai piedi delle Alpi, segnacolo di agitazione, speranza di rivoluzionari, intorno al quale si raccoglievano profughi e parlavano di nazionalità, di indipendenza; quel vessillo che copriva coll'allegria de' suoi colori festosi una costituzione ed un parlamento, sembrava una provocazione, una sfida.
Il Piemonte era il temuto ribelle!
Comporre negli animi la concordia, la fede negli ordini nuovi, rassicurare l'Europa serbando fede alla causa italiana, preparare Re, parlamento e popolo agli ardimenti, creare in Piemonte una coscienza patriottica suscitandovi l'ardore dello spirito nazionale, infondere negli uni la confidenza e l'audacia, negli altri la prudenza, effondere sovra tutti il magico alito della libertà, questo fu il grande, il magnifico pensiero di Cavour.
In questa coraggiosa preparazione è la principale opera sua, la vera opera sua. La sua azione in quel tempo fu tanta e così potente, che avvinse la storia.
Essa dovette seguirlo ed obbedirlo.
Mostrò, allora, subito quel che occorreva.
Il suo memorabile discorso del 7 marzo 1850, meglio un manifesto che un discorso, è programma di azione.
«Come starsene immobili?
«Pensiamo un po'. La rivoluzione da una parte, co' suoi urti, le sue improntitudini; L'Europa monarchica e conservatrice dall'altra, sospettosa, diffidente, cupida di soffocare ogni idea liberale.
«La immobilità sarebbe l'umiliazione e la ruina. Il Piemonte scenderebbe al livello degli altri staterelli, l'Italia perderebbe ogni speranza. Altri fini, diceva, altri fini deve conseguire la nostra nazione, deve conseguire l'Italia!
«Lo Statuto non può rimanere una formula vana: esso è strumento capace e poderoso.
«Adopriamolo.» Questo, in succinto, è il pensiero. Nella mente di Cavour, la costituzione era cosa viva: i partiti dovevano fecondarla; partiti organici, logicamente ordinati con idee e con programmi. E questi partiti occorreva crearli, perchè le agitazioni estreme svanissero, infeconde. Occorrevano riforme, per evitar le violenze. Egli scriveva nel 1860: «prevenendo gli avvenimenti, secondando ciò che vi è di giusto e di nobile negli istinti popolari, si rendono impossibili le rivoluzioni.» Fu il primo serio tentativo della vita libera in Italia.
Il discorso del marzo ottenne l'effetto che Cavour desiderava: quello di schiarire la situazione innanzi all'opinione pubblica.
Un anno dopo Novara, per bocca di Cavour, la Camera Subalpina preannunciava il parlamento del 1861. Nessuna meraviglia quindi, se codeste parole rintronarono fra le moltitudini.
Cavour incarnò, fin da quel giorno, le speranze italiane, e quando, pochi giorni dipoi, Vittorio Emanuele firmava il decreto che lo faceva ministro, dicendo al d'Azeglio: «Badate, costui vi scavalcherà tutti,» forse nel conscio animo del Re trepidava la profezia del pallido Gioberti, la parola ultima che dal letto di morte il doloroso profugo gettava all'Italia, perchè dalla sventura non dileguasse il conforto di suprema speranza. Quella grande anima, perdonando, divinava il Re ed il Ministro.
Da quel giorno, anche agli occhi dei più diffidenti, questa monarchia che si trasformava così sinceramente in regime di libertà, che mostrava di accogliere così spontaneamente tutte le idee moderne e le favoriva e si rinnovellava in esse, legittimandosi italiana nel sentimento e nell'entusiasmo, onde i profughi delle altre regioni sedevano nei consigli della Corona; e in parlamento e dalle cattedre spandevano sulla gioventù la luce di insegnamenti, maturati nelle sventure, per cagione della patria e a torme altri profughi erano accolti e protetti in Torino, apparve un fatto così straordinario, così miracoloso, da colpire le immaginazioni, come una rivelazione della Provvidenza.
Gli animi di quel tempo spiravano amore, fede, poesia. Erano in Dio credenti, e credevano nella patria.
Tutta la genialità vibrante nell'arte italiana, il veemente desiderio sprigionatosi fin dai primi anni del secolo, librato sui monti, sulle marine, sui memori piani, quando la benedizione del pontefice accendeva nei cuori il fuoco mistico di religioso entusiasmo, nel quale l'amore di patria si purificava e raggiava sulla fronte una luce ineffabilmente spirituale! Meraviglioso stato d'animo per osare.
Non è strano se in quel fermento sorgesse il disegno di far partecipe il Piemonte alla guerra che allora si combatteva sul Mar Nero, per assicurare il cosiddetto equilibrio del Mediterraneo, mossa in favore della Turchia, avverso la Russia, dalla Francia e dall'Inghilterra.
Se nel salotto politico della marchesa Alfieri o nella tesa dove Farini aspettava le quaglie, o nella sola mente di Cavour, oppure nella fantasia di Vittorio Emanuele sia sorto per la prima volta il pensiero dell'alleanza di Crimea, è vano ricercare. Correva per l'aria l'impeto delle audacie.
Nelle condizioni dell'Europa, mentre la Russia provocava, l'Austria si disponeva a stupire il mondo colla sua ingratitudine, e la questione d'Oriente risorgeva in modo nuovo e diverso, e non era temerario il supporre che sul Danubio divampasse la fiamma augurale della nazionalità, l'inoperosità del Piemonte pesava su quelli, che ne' suoi destini vedevano l'indipendenza d'Italia, al Re che conosceva come in cuore dell'esercito e del popolo durasse il tormento di Novara.