È una delle leggi storiche più consolanti, una di quelle che più si ripetono e confermano nel tempo. E se il dispregiarla è carattere proprio dei regimi dispotici, che alle forze morali non credono e l'avvenire non curano, sarebbe fatale pei regimi liberali l'obliarne l'efficacia e la logica.
Del resto, ed ora può dirsi sarebbe stato un grande ostacolo per lo svolgimento normale del sistema italiano se Ferdinando II avesse ubbidito a consigli politici di altra natura. Questa tentazione era passata, nei primi tempi, per l'animo suo: ed anche su lui, come sul duca Francesco IV, aveva tentato qualche pressione quel manipolo di liberali che in ogni regione italiana stava all'agguato per indovinare un principe diverso dagli altri. Il pericolo sarebbe stato grave se, cedendo alle influenze di Luigi Filippo, il re di Napoli avesse camminato per quella via delle riforme che lo aveva sedotto nei primi mesi del suo governo. Una iniziativa liberale partita dal mezzogiorno, negli anni fra il 1830 e il 1840, avrebbe potuto impacciare l'iniziativa liberale del settentrione e creato fra i patriotti italiani un dualismo forse esiziale per l'ideale politico.
Se le cospirazioni furono la ragione o il pretesto per cui la dinastia borbonica respinse ogni tentazione di liberalismo e si rifugiò paurosa nell'abbraccio austriaco, bisogna dire che queste cospirazioni hanno raggiunto il loro scopo. Le ultime soprattutto, perchè in queste spuntava nuovo e seducente il concetto unitario, a cui Giuseppe Mazzini, colla sua grande facoltà d'iniziativa, aveva ormai coordinate tutte le fila del movimento settario, staccandolo dalle antiche tradizioni di vendette locali.
Certo, non s'era mai visto prima che un drappello di giovani veneti chiamasse a rivolta popolazioni napoletane; si sarebbe visto non molto dopo un generale napoletano chiamato a comandare rivolte venete. Erano i primi sintomi di quella felice fusione di sentimenti, che avrebbe dato alle popolazioni italiane un solo vessillo ed un solo programma.
La generazione contemporanea può discutere liberamente il fenomeno delle cospirazioni italiane, che sarà argomento di studio, non sempre facile, per le generazioni venture. Quando un paese, dopo mezzo secolo d'esercizio, s'è tanto inoculato il vaccino della libertà da credere piuttosto al diritto di abusarne che alla possibilità di scemarla, può essere anche impunemente ingiusto verso quei precursori, o efficaci o semplicemente ingenui, che a metodi diversi hanno dovuto ricorrere. Il collocarsi col pensiero negli ambienti giuridici, morali e politici del passato è uno sforzo che non sempre riesce neanche a storici pacati e desiderosi d'imparzialità. È proprio dell'indole umana giudicare altri da sè come esaminare i tempi alla stregua dei criteri contemporanei.
Sugli innumerevoli tentativi di movimento che hanno agitata l'Italia dal 1815 al 1848 si possono portare giudizi diversi, secondo gli scopi, secondo gli effetti, secondo gli uomini. Però il tentativo dei fratelli Bandiera ha ed è giusto che abbia un posto a parte. La povertà dei mezzi coi quali fu condotto potrà sempre meritare, nell'opinione dei pensatori austeri, rimprovero di spensieratezza; ma le splendide idealità a cui s'inspirò quell'impresa, cominciata con tanto amore e finita con tanta pietà, hanno innalzato il sacrificio all'altezza di programma politico, ed hanno gettato su tutto il successivo movimento italiano quel profumo di giovinezza e di poesia, che, anche quando rimane leggenda, aiuta a render grandi le cose nobili e a mantenere nobili le cose grandi.
Ho detto, sul principio di questo discorso, che, ad eccezione di uno solo, tutti gli organismi governativi italiani respingevano volontariamente da sè ogni velleità di pensiero.
L'eccezione, voi l'avete indovinato, deve cercarsi nello Stato Sardo; che venne pigliando, attraverso molte contraddizioni, il suo preciso indirizzo, soprattutto dopochè, morto Carlo Felice, senza discendenti diretti, saliva al trono, il 27 aprile 1831, un uomo, contro il quale s'è per lunghi anni sbizzarrita un'aspra e ingenerosa polemica, Carlo Alberto, principe di Carignano.
È un nome che non può uscire dalla penna o dalle labbra, senza richiamare ogni animo gentile a profonde meditazioni. Fu nella vostra città, in Firenze, ch'egli venne a cercare conforto de' suoi primi dolori; fu il vostro gran cittadino, Gino Capponi, che ne ottenne le prime confidenze di uomo e di principe. Chi lo ha chiamato Amleto, non ha riassunto che ima parte dell'anima sua; poichè Amleto ha ucciso di spada per vendicare la patria, Carlo Alberto s'è ucciso di dolore per liberarla; Amleto è morto nel dubbio, Carlo Alberto è morto nella fede, in quella fede che sul campo di Novara gli aveva fatto indovinare Vittorio Emanuele II.
Più nel vero è il marchese Costa de Beauregard che lo chiama le plus grand des méconnus. È infatti questa l'amarezza che gli avvelena la vita: essere sempre giudicato a rovescio, essere accusato di accarezzare sentimenti in diretta opposizione coi suoi. Ha il desiderio di allargare a' suoi sudditi le funzioni del governo, e lo chiamano reazionario; dirige tutta la sua politica allo scopo di render possibile una guerra d'indipendenza, e lo chiamano austriacante; abdica e muore per rimanere fedele alla sua missione, e lo chiamano traditore.
Sono le grandi ingiustizie dei contemporanei che la storia è sovente chiamata a rintuzzare. E dopo cinquant'anni sono ormai già tanto rintuzzati, che ognuna delle pubblicazioni relative a Carlo Alberto aggiunge una giustificazione od un elogio per lui, nessuna riesce ad aggiungergli un biasimo od una colpa.
Il pensiero politico ch'egli porta al trono e con cui dirige lo Stato è il pensiero dell'indipendenza italiana. Nè, malgrado le difficoltà dei tempi, lo teneva talmente celato che non si avvertisse dai ministri suoi, più invecchiati nel sentimento dinastico e nella tradizione diplomatica del diritto divino. Quando infatti, sollecito di non tradir l'avvenire, nominava a suo ministro degli affari esteri un uomo innamorato delle vecchie forme, il conte Solaro Della Margherita, questi lasciava scritto fin dal 1835: «Non ebbi d'uopo di grande scaltrezza per iscoprire, che oltre al giusto desiderio d'essere indipendente da ogni influenza straniera, egli era fin nel profondo dell'animo avverso all'Austria e pieno d'illusioni sulla possibilità di liberare l'Italia dalla sua dipendenza. Non pronunziò la parola di scacciare i barbari, ma ogni suo discorso palesava il suo segreto».
Che a questo concetto dell'indipendenza della patria si associasse l'altro di ingrandire lo Stato, secondo le secolari tradizioni della casa di Savoia, non è difficile supporlo e non gli procurerebbe nessun rimprovero dalla storia. Ma dal cauto suo labbro uscì pure una frase, la quale dimostra che non egoista e non angusta era in lui la previsione dell'avvenire; poichè all'inviato suo, conte Ricci, che gli poneva alcune obbiezioni di carattere dinastico, non esitò a rispondere fin dal 1845: «Conte, la forma dei governi non è eterna; cammineremo coi tempi».
Il 1821 e il 1833 furono le due epoche formidabili, che servirono a tante penne, alcune oneste, per dilaniare la memoria di Carlo Alberto. Nel 1821, fu detto, tradì i suoi amici, ai quali aveva promesso di aiutarli nel movimento. Nel 1833 perseguitò i liberali, condannandoli all'esilio od alla morte.
Ebbene, a settant'anni di distanza possiamo avere l'animo abbastanza calmo per esaminare queste due accuse.
Nessuno ha mai saputo dimostrare che cosa Carlo Alberto avesse promesso ai cospiratori del 1821 e in che modo quindi li avesse traditi.
Bisogna essere bene inesperti di congiure e di rivoluzioni per ignorare quanto sia facile a cospiratori illudersi sopra una parola o sopra un gesto, e come sia prepotente, negli uomini che si sono posti, anche per una causa nobile, fuori della legge, il bisogno di aggrapparsi a qualunque filo che sembri legarli ad altri e maggiori cooperatori del loro proposito.