Anton Barrili - Castel Gavone: Storia del secolo XV стр 2.

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Giusta le apparenze, il padrone del luogo, o fittaiuolo che fosse, raccoglieva nella sua persona le due dignità di ortolano e di ostiere.

I due cavalieri giunsero davanti al portone spalancato, che lasciava scorgere un'aia pulita e lucente, sebbene non d'altro fosse composta che di terra battuta, con un frascato in aria, all'altezza del primo piano, e qua e là alcune rozze tavole e panche niente più appariscenti, secondo il costume delle osterie di campagna. Di là dall'aia, e proprio di rincontro al portone, si dilungava un pergolato, che risaliva tra due file di pilastri sul fianco della collina.

Dovrebbe esser qui;disse il più vecchio dei due, uomo intorno ai sessanta, dal volto abbronzato e dalle membra poderose, strette in un farsetto di pannolano, su cui era buttato alla scapestrata un corto mantello.Questa veduta risponde benissimo a ciò che vi ha detto il magnifico messere Ambrogio Senarega. C'è il terrazzo colla pergola, c'è la frasca sull'uscio, il viale coperto in fondo dell'aia.

E l'insegna che dice tutto!interruppe il compagno, d'una ventina d'anni più giovine e più nobilmente vestito.Vedi, Picchiasodo; qui sul portone sta scritto a lettere da speziali: «Fermatevi all'Altino; c'è buona l'accoglienza, e meglio il vino

L'oste si vanta;rispose il Picchiasodo;ma gli darò io una ripassata al suo vino, e se non mi va, il primo pezzo di muro che mando a rotoli, vuol esser questo, dov'egli ha posto l'insegna.

Intanto, erano entrati sotto il portone.

L'oste, faccia contenta e grulla (così almeno portava l'apparenza), si fece innanzi premuroso, con un ragazzone e una nidiata di bambini alle spalle.

Entrate, magnifici messeri!gridò egli, cavandosi umilmente la berretta e mettendo inchini su inchini.Maso, piglia i cavalli e conducili in istalla.

No, non occorre:disse il più giovine dei due viaggiatori, che in quel mezzo scendeva d'arcione.

Metteteli soltanto al coperto; ci si ferma per poco.

E se il tuo vino non è buono, si parte subito!aggiunse quell'altro, che rispondeva al nome di Picchiasodo.

Ah, per questo,rispose l'oste con aria di sicurezza profonda,non ho niente paura. Vedrete, messere, sentirete che vino! Non fo per dire, ma ci ho il meglio della vallata. Soltanto alla tavola del nostro magnifico Marchese si può bere il compagno.

Vedremo. confronteremo!disse gravemente messer Picchiasodo.

Ed era per aggiunger dell'altro; ma il suo compagno gli diede un'occhiata, che ebbe il potere di arrestargli la parola tra i denti.

Venga dunque il tuo vino!ripigliò l'oratore interrotto.E siccome io m'immagino che voi, messer Pietro, non vi disporrete a mandarlo giù così di buon mattino, senza un briciolo d'accompagnatura.

No certo;ribadì l'altro sollecito.Non ci sei che tu, per ber vino ad ogni ora, come se fosse acqua di fonte.

Ah, baie! Io e lui siamo amici vecchi, messere, e si sta come pane e cacio. A proposito di cacio, hai tu qualcosa da ungere il dente? Di' su!

Comandate, magnifici messeri!fu pronto a dir l'oste, a cui erano rivolte le ultime parole del Picchiasodo.C'è pane e cacio, uova da farne una frittata in un batter d'occhio, e se vi piace, posso anche ammannirvi un pollo allo spiedo.

Ottimo amico! Ostiere degno della mia stima e della mia pratica!gridò con burlesco fervore quell'altro.Portaci il pollo, la frittata, il cacio, il pane, tutto quello che hai!

L'oste, serviziato per indole e giubilante per quella mattutina ventura, non se lo fece dire due volte, e, comandato al Maso che accompagnasse i due forastieri al pian di sopra, ov'era luogo più degno di loro, entrò difilato in cucina, per ammannire alla svelta tutto il meglio della credenza. La moglie si diede a pelare un pollo, ostia innocente, acciuffata in quel punto sull'aia e messa a morte senza processo; il figlio più grandicello a rattizzare il fuoco e disporre il menarrosto; un altro a raccattare nell'orto due talli d'indivia e due carciofi primaticci; egli a trar fuori dall'armadio il pane, il cacio, il vasellame e tutto l'altro che bisognasse. Volea fare le cose a modo, mastro Bernardo; dare in tavola i principii, servire per bene i suoi ospiti, che gli pareano persone d'assai.

Per altro, diceva egli (e qui faceva capolino la natural diffidenza del campagnuolo), o come va che due cavalieri di quella fatta, avviati al Finaro, si fermino qua, all'insegna dell'Altino? Capisco che alla Marina non abbiano trovato il fatto loro; ma qui siamo a cento passi dal borgo, e, con quelle cavalcature vistose, in quattro salti erano a casa.

Onesta considerazioni mastro Bernardo le faceva ad alta voce, in quella che spicciava le sue faccende. Il Maso, che tornava in quel punto da apparecchiare la tavola, lo intese e da buon cortigiano entrò a dire la sua.

Padrone, o che credete, che l'Insegna dell'Altino la non ci abbia il suo buon nome per tutto il paese? Chi non lo sa, che il miglior vino di Calice viene a farsi bere nella nostra osteria? E non sono già soli i terrazzani, che ci hanno la divozione a questo santo, ma anco i forestieri, che pure non avrebbero a risaperne gran cosa. Vi ricordate, padrone, quel pezzo grosso di genovese, che c'è capitato due volte e non c'era luogo al mondo che gli piacesse di più?

Uhm!brontolò mastro Bernardo, che in sulle prime aveva fatto bocca da ridere.Brutta gente, quei genovesi! E se questi due fossero della pasta di quell'altro, meglio sarebbe dar loro acquetta, che vino di Calice!

Ho dunque a portar loro l'acquetta?chiese il ragazzone, con aria che volea parere melensa.

Di che acquetta mi vai tu novellando?

Non sapete, mastro Bernardo? quel vinello fiorito, che è sempre in fin di botte, perchè oramai nessuno lo vuole?

Ehi, bada a te, mascalzone! Vuoi forse trincartelo tu, che fai sempre a screditarlo? Ci ho a fare un nipotino ancora, prima che tu ne assaggi!

Un nipotino su quel vinello? Sarà acqua schietta, alloranotò il Maso tra sè.

E raumiliato in vista, ma contento d'aver detto la sua, andò a spillare il migliore, per servir degnamente i due forastieri; indi, colmate le bottiglie, si affrettò a portarle di sopra, insieme col pane e i camangiari.

Si affrettò, dico, ma non fu tanto sollecito a ritornare, come al padrone pareva che egli ragionevolmente dovesse; epperò n'ebbe da mastro Bernardo un'altra ripassata delle solite.

Diamine!sclamò il Maso.Come ho a fare? Cinquantadue scalini non si salgono e non si scendono mica in un batter d'occhio!

Cinquantadue! Tanti ce n'ha dal pian terreno al terrazzo.

E appunto lassù ho dovuto apparecchiare. Hanno voluto così.

Mastro Bernardo rimase lì a mezzo, colla mano sullo schidione e le ciglia inarcate.

Che diavolo!gridò egli sbalordito.Sul terrazzo? in fin di novembre?

La giornata è bella;notò il ragazzo.I due messeri hanno detto che par primavera e vogliono profittarne per godersi la vista.

Della Caprazoppa!interruppe l'ostiere.

Eh, già, della Caprazoppa;soggiunse il Maso.Voi stesso, padrone, non dite che la valle è stretta, ma bella a vedersi? E poi, non si vede soltanto la Caprazoppa, di qua. Si guarda a manca, e si vede il mare; a destra, e si vedono le case del borgo, il castel Gavone e la roccia, di Pertica, Così l'hanno intesa i due forastieri, e, scambio di mettersi a tavola, sono andati a sedersi sul murello, per contemplare il paese.

Uhm! uhm!borbottò mastro Bernardo.Che fossero davvero due genovesi? Bisognerà sincerarsene.

Padrone,ripigliò il Maso,s'ha a darlo in tavola, il pollo?

Non ancora; lo porterò io, quando sarà rosolato per bene. Va intanto lassù, moccicone, e vedi se non hanno mestieri di te.

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