Anton Barrili - Castel Gavone: Storia del secolo XV стр 7.

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Messer Giacomo Pico non gli dava più retta; uscito in sull'aia, aveva infilato il portone, e via come una saetta.

Ehi, dico, messer Giacomino, vi prego, non mi fate pasticci!andava gridando l'ostiere.Che diamine! ci ha il fuoco alle calcagna. E perchè mo'? Quella notizia l'ha messo fuori dei gangheri. Egli forse. cotto di madonna Nicolosina? Eh, non mi farebbe meraviglia; la donna è un certo guaio! Quando t'ha fatto perdere il lume degli occhi, non badi più se la è imperatrice o villana. Orvia, se la è così, un bel malanno l'ho fatto! Ma già, maledetta lingua! La Rosa me lo dice spesso, che non so tenermela a freno! E poi? che male c'è? Tanto e tanto s'aveva a sapere. Il Cascherano non è forse arrivato? E come l'avranno a battezzare, quando capiterà al castello e farà il su' inchino alla sposa? Andiamo, via; delle mie ragazzate, non è questa la peggio.

Con questo po' di sollievo, mastro Bernardo si ritirò nella sua tenda, dove noi lo lasceremo ad aspettare gli avventori quotidiani, men nobili o meno degni della nostra attenzione.

Il Bardineto, con quel passo che ho detto, s'era avviato verso il Borgo. Giunto alla porta di san Biagio, varcò il ponte levatoio gittato sul torrente dell'Aquila, ed entrò sotto l'androne, dov'era scolpito in marmo il carretto, tirato da due leoni aggiogati, con suvvi lo scudo listato a fascie diagonali d'argento in campo rosso.

Per la prima volta, guardando quella insegna de' suoi signori, l'occhiata fu torva. Egli per fermo non se ne addiede, non n'ebbe coscienza; ma fu torva la sua guardatura, piena di stizza, se non forse di mal talento e di rabbia.

Ah! diceva quell'occhiata; sposa Nicolosina ad un altro! Era forse quella la ricompensa che egli si riprometteva de' suoi fedeli servigi? Non già che l'attendesse; non già che l'avesse per suo certo diritto! Ma egli, adolescente, quasi fanciullo, era venuto alla corte del Finaro, come donzello del marchese Galeotto, e da lui tenuto in conto di figlio. Vassalli erano i Pico, ma pur sempre i primi di Bardineto; questo sentivano di sè medesimi, e l'onesta alterezza del casato erasi accresciuta nell'animo del giovinetto, per quel suo lungo vivere in corte, dimestico ai grandi, per modo da parergli non pure di essere uno dei loro, ma di non essere stato mai altro. E un bel giorno i vincoli della consuetudine s'erano ristretti anche più, per aver egli campato il marchese dalle mani dei genovesi, che in uno scontro di pochi anni addietro già l'avean posto a mal partito, sui monti alle spalle di Albenga.

E al suo ritorno in corte, che era egli mai avvenuto? Lui audacissimo tra i migliori del Finaro, lui salvator suo e primo sostegno della sua casa, celebrava il marchese; però, tra le lodi e i plausi universali, madonna Bannina, la virtuosa castellana, o la sua lieta figliuolanza, gli aveano fatto gran festa. Nicolosina, l'ultima nata, ricciutella innocente, gli si era sospesa al collo e gli aveva coperto di baci il volto abbronzato dal sole dei campi. Bambinesco era l'atto, e naturale in quel punto; pure l'aveva commosso più che ogni altra dimostrazione d'affetto e di gratitudine de' suoi signori più innoltrati negli anni.

Nè quelle infantili carezze erano state le sole. Da quel dì, la bionda fanciullina non ebbe amico più caro del suo Giacomo; lui aspettava ansiosa; lui sgridava, se tardo a giungere per aver parte a' suoi giuochi; lui abbracciava; a lui scompigliava con vezzo fanciullesco le chiome, più che non avessero fatto le aure dell'Appennino; e i parenti a ridere, a compiacersi di quelle tenerezze, in cui non pure vedevano, ma eziandio caldeggiavano una testimonianza del loro animo grato e del loro affetto paterno per lui.

Senonchè, un giorno (e' doveva pur giungere!) la fanciulla non gli era più corsa incontro come soleva; non gli si era gettata al collo, non lo aveva più baciato; nemmanco gli aveva profferta con soave atto la fronte, come usava co' suoi genitori. Lo aveva in quella vece accolto con una certa gravità impacciata, che la faceva due cotanti più bella; lo aveva salutato con un «buon dì, messer Giacomo» profferito a mezza voce, ed aveva arrossito dal sommo della fronte fino alla radice del collo.

Ed egli si era inchinato, come solea fare colla madre di lei; nè aveva trovato cosa a ridire intorno alla novità delle sue accoglienze; ma quel riguardoso saluto e quel rossore, che tradiva i casti segreti della pubertà nascente, gli avevano recato arcane commozioni nel sangue, dischiuso un mondo ignoto allo spirito.

Da quel giorno aveva pensato; più del bisognevole e del ragionevole aveva pensato al nuovo aspetto di quella fanciulla, de' cui baci infantili erano calde tuttavia le sue guance. E una gran sete di quei baci improvvisamente cessati gli riardeva le labbra. Ma non erano più i baci della fanciulla, non erano più i casti baci fraterni, che egli ripensava in quel punto.

Da quel giorno si fece più grave; da quel giorno il suo volto, gli atti, i pensieri, i modi del suo vivere, assunsero quel non so che di bizzarro e di fantastico, donde la gente volgare toglieva indizio di alterigia, non dicevole punto al suo umile stato di vassallo. Presso i famigliari del marchese dicevasi in quella vece che la guerra avea fatto del giovine un uomo, del donzello un capitano. Ed uomo e capitano, messer Giacomo Pico era più bambino che mai. Del suo futuro non aveva un concetto, un proponimento formato; viveva alla giornata; lieto quando gli fosse dato vedere il suo conforto, triste ed uggioso quando ne fosse lontano.

La corte dei marchesi del Finaro aveva nelle sue consuetudini alcun che della vita patriarcale. Però, in quella beata intrinsichezza della famiglia, le occasioni di vedere Nicolosina e di starle accanto eran molte e frequenti. Per altro, erano anche in buon dato le occasioni di lontananza. Il marchese Galeotto, pari in cotesto a tutti gli animi grandi, quando aveva messo l'amor suo in alcune, non conosceva misura. E grato al Bardineto della conservata libertà, fors'anco della vita, in lui aveva riposto ogni sua fede, con lui si consigliava in ogni più grave bisogna, lui, come suo messo fidato, o come un altro sè stesso, mandava di sovente d'una in altra villata a recarvi i suoi ordini, a chieder ragguaglio d'ogni novità che occorresse. Conosciuto dovunque come il più caro amico del marchese, messer Giacomino (così dimesticamente lo chiamavano i terrazzani) era ossequiato ed obbedito da tutti.

Così viveva il Bardineto, senza por mente al domani. Amava, senza proporsi una meta, senza sperar nulla di certo; amava, ecco tutto, e fidava alle onde tranquille il fragile schifo della sua giovanile fortuna. Però, quando Giano Fregoso, fattosi pur dianzi signore e doge di Genova, ebbe mandato Bartolomeo Cecere a dimandar la mano di Nicolosina, per la prima volta il povero Bardineto tremò, sentì come una mano di ferro che gli agguantasse il cuore. E non cessò lo spasimo suo, fino a tanto non ebbe udite dal labbro del marchese queste consolanti parole:

«A Giano, prestantissimo uomo, rendo, o messere, le grazie che per me si posson maggiori, che in ciò liberale si mostra ed amicissimo mio. Senonchè, la figliuola mia è troppo giovine per andarne a marito, e in cosiffatti negozi occorre maturità di consiglio. Ben so a qual patto vecchi nemici possano raccostarsi; però consentite, messere, che di cotesto io m'abbia a dare più lunga e meditata risposta in iscritto».

Così era bellamente pagato il Fregoso. Ma egli, inteso l'animo dell'avversario, tosto aveva adunato il Consiglio e messo mano a più saldi argomenti. E poco dopo l'ambasciata del Cecere, andavano alla corte di Galeotto, oratori non più di Giano Fregoso, privato cittadino, bensì del Doge e del Consiglio, un Giacomo di Leone e un Galeazzo Pinello.

«Marchese Galeotto,avean detto costoro,i Genovesi, quanto è in poter loro, detestano le inimicizie e meglio in pace coi vicini amano vivere, che in guerra. Esortano te a volere il medesimo, e a mostrarne il desiderio, ritenendo ciò che è tuo, restituendo l'altrui. Possiedi Castelfranco, già da essi murato e ad essi appartenente quasi per gius di dominio. Sai una terza parte del Finaro doversi ai Genovesi, e come soggetta e come venduta. Sai esser Giustenice loro dominio del pari. Tutto ciò, dunque, ripetono essi da te, e ti pregano ad amar meglio di concederlo pacificamente, anzichè di doverlo rendere per forza di guerra. Inoltre, sarebbe fuori dalle consuetudini d'amicizia e di pace che presso te rimanesse ospite più a lungo messer Barnaba Adorno, già doge, oggi nimico della Repubblica. A te il vedere che cosa ti convenga di fare; se mandarlo a Genova, o voler guerra da lei».

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