II
Questestate sono sceso allalbergo dellAngelo, sulla piazza del paese, dove piú nessuno mi conosceva, tanto sono grande grosso. Neanchio in paese conoscevo nessuno; ai miei tempi ci si veniva di rado, si viveva sulla strada, per le rive, nelle aie. Il paese è molto in su nella valle, lacqua del Belbo passa davanti alla chiesa mezzora prima di allargarsi sotto le mie colline.
Ero venuto per riposarmi un quindici giorni e càpito che è la Madonna dagosto. Tanto meglio, il va e vieni della gente forestiera, la confusione e il baccano della piazza, avrebbero mimetizzato anche un negro. Ho sentito urlare, cantare, giocare al pallone; col buio, fuochi e mortaretti; hanno bevuto, sghignazzato, fatto la processione; tutta la notte per tre notti sulla piazza è andato il ballo, e si sentivano le macchine, le cornette, gli schianti dei fucili pneumatici. Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta. I ragazzotti che correvano tra le gambe alla gente erano quelli; i fazzolettoni, le coppie di buoi, il profumo, il sudore, le calze delle donne sulle gambe scure, erano quelli. E le allegrie, le tragedie, le promesse in riva a Belbo. Cera di nuovo che una volta, coi quattro soldi del mio primo salario in mano, mero buttato nella festa, al tiro a segno, sullaltalena, avevamo fatto piangere le ragazzine dalle trecce, e nessuno di noialtri sapeva ancora perché uomini e donne, giovanotti impomatati e figliole superbe, si scontravano, si prendevano, si ridevano in faccia e ballavano insieme. Cera di nuovo che adesso lo sapevo, e quel tempo era passato. Me nero andato dalla valle quando appena cominciavo a saperlo. Nuto che cera rimasto, Nuto il falegname del Salto, il mio complice delle prime fughe a Canelli, aveva poi per dieci anni suonato il clarino su tutte le feste, su tutti i balli della vallata. Per lui il mondo era stato una festa continua di dieci anni, sapeva tutti i bevitori, i saltimbanchi, le allegrie dei paesi.
Da un anno tutte le volte che faccio la scappata passo a trovarlo. La sua casa è a mezza costa sul Salto, dà sul libero stradone; cè un odore di legno fresco, di fiori e di trucioli che, nei primi tempi della Mora, a me che venivo da un casotto e da unaia sembrava un altro mondo: era lodore della strada, dei musicanti, delle ville di Canelli dove non ero mai stato.
Adesso Nuto è sposato, un uomo fatto, lavora e dà lavoro, la sua casa è sempre quella e sotto il sole sa di gerani e di leandri, ne ha delle pentole alle finestre e davanti. Il clarino è appeso allarmadio; si cammina sui trucioli; li buttano a ceste nella riva sotto il Salto una riva di gaggie, di felci e di sambuchi, sempre asciutta destate.
Nuto mi ha detto che ha dovuto decidersi o falegname o musicante e cosí dopo dieci anni di festa ha posato il clarino alla morte del padre. Quando gli raccontai dovero stato, lui disse che ne sapeva già qualcosa da gente di Genova e che in paese ormai raccontavano che prima di partire avevo trovato una pentola doro sotto la pila del ponte. Scherzammo. Forse adesso, dicevo, salterà fuori anche mio padre.
Tuo padre, mi disse, sei tu.
In America, dissi, cè di bello che sono tutti bastardi.
Anche questa, fece Nuto, è una cosa da aggiustare. Perché ci devessere chi non ha nome né casa? Non siamo tutti uomini?
Lascia le cose come sono. Io ce lho fatta, anche senza nome.
Tu ce lhai fatta, disse Nuto, e piú nessuno osa parlartene; ma quelli che non ce lhanno fatta? Non sai quanti meschini ci sono ancora su queste colline. Quando giravo con la musica, dappertutto davanti alle cucine si trovava lidiota, il deficiente, il venturino. Figli di alcoolizzati e di serve ignoranti, che li riducono a vivere di torsi di cavolo e di croste. Cera anche chi li scherzava.
Tu ce lhai fatta, disse Nuto, perché bene o male hai trovato una casa; mangiavi poco dal Padrino, ma mangiavi. Non bisogna dire, gli altri ce la facciano, bisogna aiutarli.
A me piace parlare con Nuto; adesso siamo uomini e ci conosciamo; ma prima, ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni piú di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava locchio alle donne. Già allora gli andavo dietro e alle volte scappavo dai beni per correre con lui nella riva o dentro il Belbo, a caccia di nidi. Lui mi diceva come fare per essere rispettato alla Mora; poi la sera veniva in cortile a vegliare con noi della cascina.
E adesso mi raccontava della sua vita di musicante. I paesi dovera stato li avevamo intorno a noi, di giorno chiari e boscosi sotto il sole, di notte nidi di stelle nel cielo nero. Coi colleghi di banda che istruiva lui sotto una tettoia il sabato sera alla Stazione, arrivavano sulla festa leggeri e spediti; poi per due tre giorni non chiudevano piú la bocca né gli occhi; via il clarino il bicchiere, via il bicchiere la forchetta, poi di nuovo il clarino, la cornetta, la tromba, poi unaltra mangiata, poi unaltra bevuta e lassolo, poi la merenda, il cenone, la veglia fino al mattino. Cerano feste, processioni, nozze; cerano gare con le bande rivali. La mattina del secondo, del terzo giorno scendevano dal palchetto stralunati, era un piacere cacciare la faccia in un secchio dacqua e magari buttarsi sullerba di quei prati tra i carri, i birocci e lo stallatico dei cavalli e dei buoi. Chi pagava? dicevo. I comuni, le famiglie, gli ambiziosi, tutti quanti. E a mangiare, diceva, erano sempre gli stessi.
Che cosa mangiavano, bisognava sentire. Mi tornavano in mente le cene di cui si raccontava alla Mora, cene daltri paesi e daltri tempi. Ma i piatti erano sempre gli stessi, e a sentirli mi pareva di rientrare nella cucina della Mora, di rivedere le donne grattugiare, impastare, farcire, scoperchiare e far fuoco, e mi tornava in bocca quel sapore, sentivo lo schiocco dei sarmenti rotti.
Tu ci avevi la passione, gli dicevo. Perché hai smesso? Perché è morto tuo padre?
E Nuto diceva che, prima cosa, suonando se ne portano a casa pochi, e poi che tutto quello spreco e non sapere mai bene chi paga, alla fine disgusta. Poi cè stata la guerra, diceva. Magari alle ragazze prudevano ancora le gambe, ma chi le faceva piú ballare? La gente si è divertita diverso, negli anni di guerra.
Però la musica mi piace, continuò Nuto ripensandoci, cè soltanto il guaio chè un cattivo padrone Diventa un vizio, bisogna smettere. Mio padre diceva chè meglio il vizio delle donne
Già, gli dissi, come sei stato con le donne? Una volta ti piacevano. Sul ballo ci passano tutte.
Nuto ha un modo di ridere fischiettando, anche se fa sul serio.
Non hai fornito lospedale di Alessandria?
Spero di no, disse lui. Per uno come te, quanti meschini.
Poi mi disse che, delle due, preferiva la musica. Mettersi in gruppo a volte succedeva le notti che rientravano tardi, e suonare, suonare, lui, la cornetta, e il mandolino, andando per lo stradone nel buio, lontano dalle case, lontano dalle donne e dai cani che rispondono da matti, suonare cosí. Serenate non ne ho mai fatte, diceva, una ragazza, se è bella, non è la musica che cerca. Cerca la sua soddisfazione davanti alle amiche, cerca luomo. Non ho mai conosciuto una ragazza che capisse cosè suonare
Nuto saccorse che ridevo e disse subito: Te ne conto una. Avevo un musicante, Arboreto, che suonava il bombardino. Faceva tante serenate che di lui dicevamo: Quei due non si parlano mica, si suonano
Questi discorsi li facevamo sullo stradone, o alla sua finestra bevendo un bicchiere, e sotto avevamo la piana del Belbo, le albere che segnavano quel filo dacqua, e davanti la grossa collina di Gaminella, tutta vigne e macchie di rive. Da quanto tempo non bevevo di quel vino?