Le avventure di Cipollino / Приключения Чиполлино. Книга для чтения на итальянском языке - Константинова Ирина Георгиевна страница 2.

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– Ma io non ho libri, e non ho soldi per comperarli.

– Non importa. Studierai una materia sola: i bricconi. Quando ne troverai uno, fermati a studiarlo per bene.

– E poi che cosa farò?

– Ti verrà in mente al momento giusto.

– Andiamo, andiamo, – fece il Limonaccio, – basta con le chiacchiere. E tu, moccioso, tienti lontano se non vuoi finire in gattabuia anche tu.

Cipollino aveva pronta una risposta pepata sulla punta della lingua[8], ma capì che non valeva la pena di farsi arrestare prima ancora di mettersi al lavoro.

Abbracciò il babbo e scappò via.

Il giorno stesso afidò la mamma e i fratellini allo zio Cipolla, un buon uomo un po' più fortunato degli altri, perché aveva addirittura un posto di portinaio; e con un fagottello infilato su un bastone, si mise in cammino[9].

Prese la prima strada che gli capitò davanti, ma doveva essere – come vedrete – la strada giusta. Dopo un paio d'ore di cammino si trovò all'ingresso di un paesino di campagna, senza nemmeno il nome scritto sulla prima casa. Anzi, la prima casa non era nemmeno una casa, ma una specie di canile che sarebbe bastato a malapena[10] per un can bassotto. Nel finestrino si vedeva la faccia di un vecchietto con la barba rossiccia, che guardava fuori tristemente e sembrava molto occupato a lamentarsi dei casi suoi.

Rispondete alle domande:

1. Chi era Cipollino?

2. Quanti fratelli aveva Cipollino e come si chiamavano?

3. Che cosa non piaceva ai ricchi quando capitavano vicino alla baracca di Cipollone?

4. Perché Cipollino prese il raffreddore?

5. Come era vestito il Principe Limone?

6. Perché fu arrestato Cipollone?

7. Cosa diceva la gente sull’arresto di Cipollone?

8. Cipollone fu condannato a…?

9. Perchè Cipollone fu condannato a stare in prigione anche fin dopo morto?

10. Chi c’era alla corte del Principe Limone?

11. Dove si trovò Cipollino dopo un paio d’ore di cammino?

Capitolo II

Come fu che il sor Zucchina


– Quell’uomo, – domandò Cipollino, – che cosa vi è saltato in testa di rinchiudervi là dentro? Io, poi, vorrei sapere come farete a uscire.

– Oh, buongiorno, – rispose gentilmente il vecchietto – io vi inviterei volentieri, giovanotto, e vi offrirei un bicchiere di birra. Ma qui dentro in due non ci si sta, e poi a pensarci bene[11] non ho nemmeno il bicchiere di birra.

– Per me fa lo stesso, – disse Cipollino, – non ho sete. La vostra casa è tutta qui?

– Sì – rispose il vecchietto, che si chiamava sor[12] Zucchina, – è un po' piccola, ma fin che non tira vento va abbastanza bene.

Il sor Zucchina aveva appena finito il giorno prima di costruirsi la sua casetta. Dovete sapere che fin da ragazzo egli si era fissato in testa[13] di avere una casa di sua proprietà, e ogni anno metteva da parte un mattone.

Però c'era un guaio, e cioè che il sor Zucchina non sapeva l'aritmetica, e così ogni tanto pregava Mastro Uvetta, il ciabattino, di fargli il conto dei mattoni.

– Vediamo un po' – diceva Mastro Uvetta, grattandosi la testa con la lesina, – sei per sette quarantadue… abbasso il nove… insomma, sono diciassette.

– E bastano per fare una casa?

– Io direi di no.

– E allora?

– E allora che vuoi da me? Se non bastano per fare una casa, farai una panchina.

– Ma io non ho bisogno di una panchina. Ci sono già quelle dei giardini pubblici, e quando sono occupate posso benissimo stare in piedi.

Mastro Uvetta si diede una grattatina alla testa con la lesina, prima dietro l'orecchio destro, poi dietro l'orecchio sinistro, infine rientrò nella sua bottega.

Il sor Zucchina decise di lavorare di più e di mangiare di meno, così che risparmiava tre mattoni all'anno, e qualche anno perfino cinque in una volta[14].

Diventò secco come uno zolfanello, ma la pila dei mattoni cresceva.

La gente diceva:

– Guardate Zucchina, sembra che i suoi mattoni se li tiri fuori dalla pancia. Ogni volta che il mucchio cresce di un mattone, Zucchina diminuisce di un chilo.

Quando Zucchina si sentì vecchio, andò a chiamare di nuovo Mastro Uvetta e gli disse così:

– Per favore, venite a farmi il conto dei mattoni.

Mastro Uvetta prese la lesina per grattarsi la testa, diede una occhiata al mucchio e sentenziò:

– Sei per sette quarantadue… abbasso il nove… insomma, sono centodiciotto.

– Basteranno per fare la casa?

– Io dico di no.

– E allora?

– Che vuoi da me? Farai un pollaio.

– Ma io non ho galline da metterci.

– Mettici un gatto: i gatti sono utili perché pigliano i topi.

– E' vero, ma io non ho un gatto, e a pensarci bene mi mancano anche i topi.

– Non so cosa dirti, – sbuffò Mastro Uvetta, grattandosi furiosamente la testa con la lesina, – centodiciotto sono centodiciotto, è giusto?

– Se lo dite voi che avete studiato l'aritmetica, sarà certamente così. Il sor Zucchina sospirò, poi sospirò ancora una volta; infine, visto che a sospirare i mattoni non aumentavano di numero, decise di cominciare senz'altro la costruzione.

– Farò una casa piccola piccola, – pensava lavorando, – non ho mica bisogno di un palazzo, tanto sono piccolo anch'io. E se i mattoni sono pochi, adopererò qualche foglio di carta.

Il sor Zucchina lavorava adagio adagio, per paura di consumare troppo presto i mattoni. Li metteva uno sull'altro con delicatezza, come se fossero stati di vetro. Li conosceva tanto bene, i suoi mattoni!

– Ecco, – diceva prendendone uno e accarezzandolo affettuosamente, – questo è il mattone che risparmiai dieci anni fa per Natale. Lo andai a comperare al mercato con il soldi del cappone: il cappone lo mangerò quando sarà finita la casa.

A ogni mattone tirava un sospiro lungo lungo. Ma quando ebbe consumato tutti i mattoni, gli restavano ancora molti sospiri, e la casa era venuta uguale a una colombaia.

– Se io fossi un colombo, – pensava il povero Zucchina, – ci starei comodissimo.

Invece quando fece per entrare, battè un ginocchio sul tetto e minacciò di far crollare tutta la baracca.

– Invecchiando divento sbadato: devo fare più attenzione[15]. Si inginocchiò davanti alla porta e così carponi e ginocchioni, strisciando e sospirando, entrò nella sua casina. Una volta dentro, ricominciarono i guai: se si alzava faceva crollare il tetto; lungo disteso non si poteva mettere, perché la casa era troppo corta; di traverso non si poteva sdraiare perché la casa era troppo stretta. E i piedi? Bisognava tirare dentro anche i piedi[16], altrimenti in caso di pioggia si sarebbero bagnati.

– A quel che vedo, – concluse Zucchina, – non mi resta che mettermi seduto.

E così fece. Si mise seduto e sospirò.

Se ne stava lì in mezzo alla casetta, sospirando con circospezione, e la sua faccia, nel finestrino, sembrava il ritratto della malinconia.

– Come vi sentite? – domandò Mastro Uvetta che era uscito sulla porta della bottega a curiosare.

– Bene, grazie, – rispose gentilmente Zucchina.

– Non vi va un po' stretta sulle spalle?

– No, ho preso bene le mie misure.

Mastro Uvetta si grattò la testa, secondo il solito, e borbottò qualcosa, ma non si potè capire cosa. Intanto, da tutte le parti la gente veniva a vedere la casetta di Zucchina. Venne anche una schiera di monelli e il più piccolo saltò sul tetto della casina, e cominciò a ballare il girotondo:

– Per carità, ragazzi, – si raccomandava Zucchina, – fate piano altrimenti[17] mi crolla la casa. E' tanto delicata.

Per rabbonirli si cavò di tasca tre o quattro bei confetti rossi e verdi che ci stavano chissà da quanti anni e li offerse ai ragazzi: i quali si tuffarono strillando sulla mano e si azzuffarono per spartirsi il bottino.

Da quel giorno Zucchina, appena gli cresceva in tasca qualche spicciolo, comprava dei confetti e li metteva sul davanzale della finestra per i bambini, come si mettono le briciole per i passeri. Così se li fece amici.

Qualche volta li lasciava entrare a turno[18] nella casetta e lui stava fuori a guardare che non facessero disastri.

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