Морган Райс - Furfante, Prigioniera, Principessa стр 4.

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Tano sentì un’ondata di panico. Cercò di trascinarsi sulla spiaggia tirando con le braccia come se si stesse arrampicando sulla sabbia. Gridò di dolore mentre si tirava avanti avanzando per forse la metà del suo corpo.

Il buio oscurò ancora la sua vista.

Quando riprese conoscenza Tano era riverso sul fianco e guardava delle figure accucciate attorno a lui, abbastanza vicine da potersi allungare e toccarle se gli fosse rimasta della forza per farlo. Non sembravano soldati dell’Impero, non sembravano per niente soldati e Tano aveva trascorso abbastanza tempo attorno ai guerrieri per riconoscere le differenze con la gente comune. Questi – un ragazzo e un adulto – sembravano più dei contadini, uomini comuni che erano probabilmente fuggiti dalle loro case per evitare la violenza. Non significava che fossero meno pericolosi però. Avevano entrambi un coltello e Tano si ritrovò a chiedersi se potessero essere degli spazzini tanto quanto gli squali. Sapeva che c’erano sempre quelli pronti a derubare i morti dopo una battaglia.

“Questo respira ancora,” disse il primo uomo.

“Lo vedo. Tagliagli la gola e facciamola finita.”

Tano si irrigidì e il suo corposi fece pronto a combattere anche se non c’era nulla che potesse fare.

“Guardalo,” insistette il più giovane. “Qualcuno l’ha pugnalato alla schiena.”

Tano vide che l’uomo più anziano si accigliava leggermente. Si spostò dietro a lui, scomparendo dalla sua traiettoria visiva. Tano si trattenne dal gridare mentre l’uomo toccava il punto dove il sangue ancora scorreva dalla ferita. Era un principe dell’Impero. Non avrebbe mai mostrato alcuna debolezza.

“Pare che tu abbia ragione. Aiutami a tirarlo più su, dove gli squali non arrivino a prenderlo. Gli altri vorranno vedere questa cosa.”

Tano vide il giovane annuire e insieme i due uomini riuscirono a sollevarlo, con l’armatura e tutto. Questa volta Tano gridò, incapace di non pensare al dolore mentre lo trascinavano sulla spiaggia.

Lo lasciarono come un pezzo di legno oltre il punto dove la marea aveva abbandonato sulla spiaggia le alghe, e lo fecero cadere sulla sabbia asciutta. Corsero via, ma Tano era troppo preso dal dolore per guardarli andare.

Non ci fu modo poi per lui di misurare il tempo che passò. Poteva ancora udire i rumori della battaglia come sfondo, con le sue grida di violenza e rabbia, le sue urla di attacco e il suono dei corni. Una battaglia poteva durare minuti od ore. Poteva terminare nel primo slancio o continuare e procedere fino a che nessuna delle due parti aveva più la forza neanche di scappare. Tano non aveva modo di capire come stesse andando questa.

Alla fine gli si avvicinò un gruppo di uomini. Questi invece sembravano dei soldati, con quell’espressione dura che un uomo assume solo quando ha combattuto per la sua vita. Fu facile vedere quale di loro fosse il capo. L’uomo alto con i capelli scuri davanti agli altri non indossava un’armatura elaborata come quelle dei generali dell’Impero, ma tutti lì lo guardavano mentre si avvicinavano, chiaramente in attesa di ordini.

Il nuovo arrivato era probabilmente sulla trentina, con la barba corta scura quanto il resto dei capelli e una corporatura sobria che incuteva però un senso di forza. Portava una spada corta a ciascuno dei fianchi e Tano immaginò che non fosse solo per abbellimento a giudicare dal modo in cui le mani si spostavano automaticamente vicino alle impugnature. A Tano parve dalla sua espressione che stesse silenziosamente calcolando ogni dettaglio presente sulla spiaggia, stesse valutano la possibilità di imboscate, sempre con la mente attiva. I suoi occhi si fermarono su quelli di Tano e il sorriso che seguì portava nascosto uno strano senso di umorismo, come se l’uomo avesse visto qualcosa che gli altri non avevano notato.

“È questo che voi due mi avete portato qui a vedere?” disse mentre i due che avevano trovato Tano si portavano avanti. “Un soldato dell’Impero che sta morendo con addosso un’armatura troppo splendente?”

“Un nobile però,” disse il più vecchio. “Lo si vede dall’armatura.”

“Ed è stato pugnalato alla schiena,” sottolineò il giovane. “Dai suoi stessi uomini, pare.”

“Quindi non è abbastanza in gamba neanche per la feccia che sta cercando di prendersi la nostra isola?” disse il capo.

Tano guardò l’uomo farsi più vicino e inginocchiarsi accanto a lui. Forse aveva intenzione di terminare quello che il Tifone aveva iniziato. Nessun soldato di Haylon avrebbe mai provato alcun affetto per quelli che erano dalla sua parte del conflitto.

“Cos’hai fatto per meritarti un tentativo di uccisione da parte dei tuoi stessi connazionali?” chiese il capo, abbastanza a bassa voce che solo Tano potesse sentirlo.

Tano riuscì a trovare la forza di scuotere la testa. “Non lo so.” Le parole uscirono spezzate e roche. Anche se non fosse stato ferito, era comunque steso sulla sabbia da lungo tempo. “Ma non volevo questo. Non volevo combattere qui.”

Questo gli guadagnò un altro di quegli strani sorrisi che davano l’impressione che l’uomo stesse ridendo in faccia al mondo anche se non c’era niente da ridere.

“Eppure sei qui,” disse l’uomo. “Non volevi partecipare a un’invasione, ma sei sulle nostre spiagge piuttosto che a casa al sicuro. Non volevi mostrarci violenza, ma l’esercito dell’Impero sta bruciando le nostre case mentre siamo qui a parlare. Sai cosa sta succedendo oltre il confine di quella spiaggia?”

Tano scosse la testa. Anche quello gli faceva male.

“Stiamo perdendo,” continuò l’uomo. “Oh, stiamo combattendo valorosamente, ma non conta. Non in queste circostanze. La battaglia sta ancora imperversando, ma solo perché metà dei miei sono cocciuti e non vogliono riconoscere la verità. Non abbiamo abbastanza tempo per distrazioni del genere.”

Tano lo vide sguainare una delle sue spade. Sembrava perfettamente affilata. Così affilata che probabilmente non l’avrebbe neppure sentita mentre gli penetrava nel cuore. Ma l’uomo la usò solo per fare un cenno.

“Tu e tu,” disse a due uomini. “Portate il nostro nuovo amico. Forse vale qualcosa per l’altra parte.” Sorrise. “E se non fosse così, lo ucciderò io stesso.”

L’ultima cosa che Tano sentì furono le forti mani che lo afferravano sotto alle braccia e lo sollevavano per trascinarlo via prima che lui sprofondasse di nuovo nel buio.

CAPITOLO TRE

Berin sentiva la pena della nostalgia e del desiderio mentre camminava lungo la strada che lo portava a casa a Delo e l’unica cosa che lo spingeva avanti era il pensiero della sua famiglia, di Ceres. Il pensiero di tornare da sua figlia era sufficiente per fargli aumentare il passo anche se quelle giornate di cammino erano dure e le strade sotto ai suoi piedi piene di solchi e pietre. Le sue ossa non erano per niente giovani e sentiva già il ginocchio che gli doleva per il viaggio, aggiungendosi ai dolori che gli erano stati procurati da una vita di martello e metallo rovente.

Ma ne valeva la pena per rivedere casa sua. Per vedere la sua famiglia. Per tutto il tempo che era stato via lo aveva continuamente desiderato. Ora se lo poteva figurare. Marita sarebbe stata ai fornelli nel retro della loro umile casa di legno, il profumo del cibo che sgattaiolava fuori dalla porta d’ingresso. Sartes stava giocando da qualche parte dietro alla casa, probabilmente con Nasos che lo guardava, anche se probabilmente non lo dava a vedere.

E poi ci sarebbe stata Ceres. Amava tutti i suoi figli, ma con Ceres c’era sempre stato un collegamento in più. Era lei quella che lo aiutava alla forgia, quella che aveva più preso da lui e che pareva essere la più propensa a seguire le sue impronte. Lasciare Marita e i ragazzi era stato un dovere doloroso, necessario se voleva fornire sostentamento alla sua famiglia. Lasciare Ceres era però stato come se avesse abbandonato una parte di se stesso quando se n’era andato.

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