Морган Райс - Tramutata стр 3.

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Era bellissimo. Aveva pelle liscia e olivastra – non riusciva a capire se fosse nero, spagnolo, bianco, o magari una qualche combinazione – ma non aveva mai visto una pelle così liscia e soffice combinata con una mascella così ben modellata. Aveva i capelli corti e castani ed era magro. C’era qualcosa in lui, un qualcosa di completamente fuori luogo lì. Sembrava fragile. Un artista, forse.

Non era da lei rimanere colpita da un ragazzo. Aveva sempre visto le sue amiche prendere delle cotte, ma non aveva mai veramente capito. Fino ad ora.

“E tu? Dove ti siedi?” gli chiese.

Tentò di controllare la propria voce, ma non risuonò convincente. Sperò che lui non percepisse il suo nervosismo.

Le rivolse un largo sorriso, mettendo in luce denti perfetti.

“Proprio qui,” disse, e si spostò verso il largo davanzale della finestra che si trovava lì accanto.

Lei lo guardò e lui ricambiò lo sguardo con occhi completamente paralizzanti. Lei si impose di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì.

“Grazie,” disse, e si sentì improvvisamente furiosa con se stessa.

Grazie? È tutto quello che sei capace di dire? Grazie!?

“Giusto, Barack!” gridò una voce. “Da’ il tuo posto a quella ragazza bianca così carina!”

Seguì una risata e il rumore nella stanza si impennò di nuovo, poi tutti ripresero a ignorarli.

Caitlin lo vide abbassare la testa imbarazzato.

“Barack?” chiese. “Ti chiami così?”

“No,” rispose lui arrossendo. “È solo come mi chiamano loro. Da Obama. Dicono che gli somiglio.”

Lo guardò con attenzione e si rese conto che davvero gli assomigliava.

“È perché sono mezzo nero, parte bianco e parte portoricano.”

“Beh, credo sia un complimento,” disse lei.

“Non nel modo in cui loro lo dicono,” rispose.

Lo osservò mentre si sedeva sul davanzale, mortificato, e capì che era un ragazzo sensibile. Addirittura vulnerabile. Non centrava niente con quel gruppo. Era una follia, ma si sentiva addirittura protettiva nei suoi confronti.

“Io sono Caitlin,” disse, allungando la mano e guardandolo negli occhi.

Lui sollevò lo sguardo, sorpreso, e le ritornò il sorriso.

“Jonah,” rispose.

Le strinse la mano con forza. Un brivido le corse lungo il braccio quando sentì il contatto di quella pelle morbida sulla sua mano. Si sentì sciogliere. Lui tenne la presa un secondo in più, e lei non poté fare a meno di sorridergli.

*

Il resto della mattinata fu una totale confusione e Caitlin aveva fame quando raggiunse la mensa. Aprì la doppia porta e rimase sbalordita dall’enormità della stanza, dall’incredibile rumore di migliaia di ragazzi urlanti. Era come entrare in una palestra. Eccetto che ogni venti metri tra le corsie c’era una guardia giurata che sorvegliava con attenzione.

Come al solito non aveva idea di dove andare. Perlustrò la grande stanza e finalmente trovò una pila di vassoi. Ne prese uno e si infilò in quella che credette essere la fila per il pranzo.

“Non passarmi davanti, troia!”

Caitlin si voltò e vide una grossa ragazza sovrappeso, alta una decina di centimetri più di lei, che la guardava torva in volto.

“Mi spiace, non sapevo…”

“La fila è là dietro!” disse rudemente un’altra ragazza, facendo segno con il pollice.

Caitlin guardò e vide che la fila si allungava di almeno altri cento ragazzi. A colpo d’occhio c’era da aspettare venti minuti.

Quando iniziò a dirigersi verso la fine della fila, un ragazzo ne spinse un altro, e quello volò andando a cadere dritto di fronte a lei, colpendo violentemente il pavimento.

Il primo ragazzo saltò sopra a quello steso a terra e iniziò a prenderlo a pugni in faccia.

La mensa eruppe in un boato di eccitazione, e decine di ragazzi si raccolsero attorno a loro.

“COMBATTI! COMBATTI!”

Caitlin fece diversi passi indietro, guardando con orrore la violenta scena ai suoi piedi.

Finalmente quattro guardie arrivarono e divisero i due ragazzi insanguinati, portandoli poi fuori dalla stanza. Non sembravano avere la minima fretta.

Dopo che Caitlin ebbe finalmente preso il suo pranzo, osservò la stanza sperando di vedere Jonah. Ma non era da nessuna parte.

Camminò lungo una corsia, passando oltre i tavoli, tutti gremiti di ragazzi. C’erano pochi posti liberi, e quelli vuoti non sembravano poi così invitanti, accanto a grandi combriccole di amici.

Alla fine decise per una sedia ad un tavolo vuoto verso la fine della stanza. C’era solo un ragazzo ad una estremità, un ragazzo cinese basso e mingherlino, con l’apparecchio e abiti poveri, che teneva la testa bassa e rimaneva concentrato sul suo cibo.

Si sentì sola. Abbassò lo sguardo e controllò il telefono. C’erano un po’ di messaggi su Facebook dagli amici dell’ultima cittadina dove aveva vissuto. Volevano sapere se il posto nuovo le piaceva. Non se la sentiva di rispondere. Le sembravano così lontani.

Caitlin mangiò appena: un vago senso di nausea da primo giorno la accompagnava ancora. Cercò di far cambiare direzione ai propri pensieri. Chiuse gli occhi. Pensò al suo nuovo appartamento, al quinto piano di uno sporco condominio senza ascensore nella 132a Strada. La nausea peggiorò. Respirò profondamente, volendo costringersi a pensare a qualcos’altro, qualsiasi cosa ci fosse di positiva nella sua vita.

Suo fratello più piccolo. Sam. 14 anni. Sam non sembrava mai ricordare di essere il più giovane: si comportava sempre come il più vecchio. Era cresciuto duro e irrobustito da tutto quel continuo trasferirsi, dal fatto che loro padre li aveva lasciati, dal modo in cui loro madre li trattava entrambi. Capiva che questa cosa lo irritava e vedeva anche che lui stava iniziando a isolarsi. Le sue frequenti risse scolastiche non la sorprendevano. Temeva solo che le cose potessero peggiorare.

Ma quando si trattava di Caitlin, Sam la amava incondizionatamente. E lei provava lo stesso per lui. Era l’unico punto fermo nella sua vita, l’unico di cui si potesse fidare. Sembrava che lui conservasse un posto nel suo cuore riservato solo a lei. E lei era determinata a fare del suo meglio per proteggerlo.

“Caitlin?”

Lei fece un salto.

In piedi di fronte a lei, vassoio in una mano e borsa del violino nell’altra, c’era Jonah.

“Ti spiace se mi metto qui?”

“Sì… cioè, no!” disse lei presa alla sprovvista.

Idiota, pensò. Piantala di essere così nervosa.

Jonah dispiegò quel suo sorriso e poi si sedette di fronte a lei. Stava seduto con la schiena dritta, in una postura perfetta. Appoggiò con cura il violino accanto a sé. Pose sul tavolo il suo pranzo con altrettanta delicatezza. C’era qualcosa in lui che lei non riusciva a cogliere completamente. Era diverso da qualsiasi altra persona avesse mai incontrato. Era come se provenisse da un altro tempo. Non apparteneva assolutamente a quel luogo.

“Come sta andando il tuo primo giorno?” le chiese.

“Non come me lo aspettavo.”

“So cosa intendi dire,” confermò lui.

“È un violino quello?”

Caitlin fece un cenno verso lo strumento. Lui lo teneva vicino a sé, con una mano sopra, come temesse che qualcuno potesse rubarglielo.

“Veramente è una viola. È solo un po’ più grande, ma il suono è totalmente diverso. Più caldo.”

Lei non aveva mai visto una viola, e sperava che lui la mettesse sul tavolo per fargliela vedere. Invece non fece una mossa, e lei non voleva fare la ficcanaso. Lui teneva ancora la mano sullo strumento, sembrava protettivo, come se quell’oggetto fosse qualcosa di personale e privato.

“Ti eserciti molto?”

Jonah scrollò le spalle. “Qualche ora al giorno,” disse distrattamente.

“Qualche ora!? Devi essere bravissimo!”

Lui diede un’altra scrollata di spalle. “Sono ok, credo. Ci sono un sacco di musicisti che suonano molto meglio di me. Ma spero che questo sia il mio biglietto per andarmene da questo posto.”

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