Anton Barrili - Raggio di Dio: Romanzo стр 2.

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 Ah, sì?  aveva risposto Bartolomeo Fiesco.  E meglio per noi, che non fossimo per nessuno. Quanto alla gente fidata, si raccatta dove si trova. Il mio gastaldo io lho conosciuto tra Spagnuoli, e di dovunque egli sia, me lo tengo caro. Del resto, che ci trovate di strano? Io non faccio altro che imitare il re Cristianissimo.

 In che modo?

 Nellunico che sia possibile a me. Chi ha messo egli a comandarci, che Iddio lo benedica?

 Monsignor Filippo di Cleves, signore di Ravenstein,  rispose Filippo Fiesco,  regio governatore e luogotenente generale dei Genovesi, come cantano tutte le gride.

 Dimenticate ed ammiraglio del Levante;  ripigliò Bartolomeo Fiesco.  Ma forse egli pare anche a voi un ammiraglio dacqua dolce. Quello, del resto, è il capo della gente di Francia, mandato qui per figura e per indorarci la pillola. Io intendevo parlare del comandante vero, di quello che fa tutto in casa nostra. Non è questi il Roccabertino? E chi è il Roccabertino? non è forse un Aragonese? Ed io ho per luogotenente un Catalano. La differenza è qui tutta.

Largomento non ammetteva risposta; e messer Filippino potè anche pensare che ognuno in casa sua si governa a suo modo. Nè altre molestie ebbe don Garcìa, che veramente non le meritava. E tutti sapendo chegli era stato buon compagno di rischi del capitano Fiesco, nessuno conobbe mai quale alto ufficio avessegli esercitato in Haiti. Tacevano le sue gesta i pochissimi che avrebbero potuto parlarne; frate Alessandro, ad esempio, suo conterraneo e suo introduttore alla mensa soldatesca nel bosco di Xaragua; Giovanni Passano e Pietro Gentile, che di aiutanti del Fiesco essendosi mutati in aiutanti di don Garcìa per una lugubre impresa, non avevano nessuna ragione di vantarsene, quantunque nella brutta occasione avessero imparato a stimare quelluomo. Senza di lui, come si sarebbe salvata la infelice regina di Xaragua? Senza i casi che necessariamente nerano seguiti, come si sarebbe salvata Higuamota, la graziosa fanciulla, diventata moglie a Giovanni Passano un mese dopo che sua madre era diventata contessa del Fiesco?

Fortunato, il Passano! Restava luogotenente del conte; ma in tempo di pace, comerano allora i nostri reduci del nuovo Mondo, faceva dellaltro, vivendo molto a Genova e curando glinteressi del suo protettore. Lo chiamavano già Da Passano. E perchè no? Forse era della stirpe onorata di quei nobili della Riviera di Levante, e il nome voleva pur dire qualche cosa, anzi più di qualche cosa, in un tempo che quei de e quei da non si usavano con norme fisse. Era il tempo, o giù di lì, che un gran capitano di ventura, dantico ceppo parmense, signor di Berceto, di Torchiara e di San Secondo, si sentiva chiamare promiscuamente Pier Maria Rossi e Pier Maria De Rossi; ed egli poi, a farlo a posta, sullingresso di Torchiara faceva scolpire il suo nome nella umilissima forma di Pietro Rosso. È vero che lo metteva in fin di verso, per far rima a modo suo con due finali in orso. Ma, per trovare esempi più prossimi, gli stessi conti di Lavagna non avevano sempre creduto, coi genealogisti di casa, dessere stati chiamati Fieschi, per una ottenuta prefettura del Fisco imperiale in Italia, donde sarebbe venuta la più o meno naturale storpiatura del Fliscus. Il nostro Bartolomeo, che gradiva anche alle sue ore il nome di Damiano, lasciava correre un Bartholomeus Frescus in atti notarili; e questo forse in omaggio ad una più modesta genealogia del 1171, quando due conti di Lavagna avevano preso a far cognome dai lor soprannomi di Fresco e di Secco, trovati buoni a distinguere le loro due nobili persone, che portavano il medesimo nome di Ugo. Non troppo dissimilmente i contèrmini Malaspina si erano spartiti in due rami, il fiorito ed il secco.

Ma torniamo a don Garcìa, che in tutte queste minuzie non ha niente a vedere. Era un bravuomo, che si sapeva contentare, avendo un pane onorato per la vecchiaia. Faceva un po di tutto, alla Gioiosa Guardia. Antico soldato, insegnava anche il mestier delle armi ai vassalli del conte; nei giorni festivi metteva in ordinanza un centinaio di fanti a piedi, e una diecina duomini a cavallo, che facessero bella mostra battendo le strade da Chiavari a Carasco, a San Colombano e più oltre. Invigilava, nelle stagioni opportune, ai raccolti dei poderi, e riscuoteva in nome del conte tutti i diritti feudali, facendo qui, come del resto, assai bene le cose, con gravità, senza rigore, con giustizia che non escludeva la umanità, persuaso dopo tutto di far piacere al padrone, e più ancora alla padrona.

Quella donna era amata, adorata per tutta la valle dellEntella e per le vicine convalli dello Sturla, della Graveglia, dellOllo. Bisognava vedere che calca di gente, quando, insieme colla nobilissima suocera, la veneranda madonna Bianchina, scendeva ai divini uffizi nella chiesa di San Salvatore. Ricordavano tutti che ne suoi paesi di là dallAtlantico era stata regina; e naturalmente si magnificava il suo lontano reame. Quello che non si poteva ingrandire, perchè già troppo grandeggiava da sè, era la sua stupenda bellezza. La sua carnagione dun color caldo oltre il tipo europeo, non appariva neanche tale, smorzata comera e condotta al vermiglio dallo strano onnipotente fulgore delle pupille nerissime. E ferivano, quelle pupille, dovunque si volgessero a caso; e molti si sarebbero lasciati ferir volentieri, a patto di sentirle rivolte a sè con qualche pietosa intenzione. Ma la contessa, nel fatto, non aveva occhi se non per il suo dolce marito, che spesso le accadeva di chiamare Damiano. E a lui più spesso accadeva di chiamarla Fior doro: Giovanna non mai; piuttosto, alla spagnuola, Juana, che riteneva molto del suono di Anacoana. I nomi, si sa, non hanno piccola importanza, in amore.

Anche a lui volevano bene quei terrazzani, più ancora che non lo rispettassero come vassalli. Già, non lo tenevano quasi più per un Fiesco; tanto che, allusanza di Genova, lo chiamavano Bartolomeo delle Indie. Sicuro, e bene prendeva egli il nome da quelle Indie occidentali, dovera stato quattro volte ad ogni sbaraglio, prode soldato, esperto navigatore, singolarmente caro a quellaltro Genovese, così grande e così maraviglioso uomo, che le aveva scoperte per potenza dingegno e di fede. Quanti erano stati con lui partecipavano un poco della sua epica grandezza; perfino i due umili marinai, Guglielmo e Battista, che si erano ridotti a vivere anchessi nel recinto ospitale della Gioiosa Guardia, e che tutti i giorni di festa, infallantemente, seduti allombra fuor della porta del castello, tenevano cattedra di geografia transatlantica. A quei discorsi accorreva sempre più gente che non alle prediche dei frati, i quali pure descrivevano qualche volta le magnificenze del regno di Dio. Ma in queste si sentiva sempre lo sforzo di fantasia di chi non cera mai stato; laddove le magnificenze del nuovo Mondo avevano avuto quei due semplici marinai per testimoni recenti.

Che fossero egualmente veridici non si potrebbe giurare. Raccontavano le cose come se le avessero ancora davanti agli occhi, e raccontandole ne davano il barbaglio agli occhi delluditorio. Si trattava doro, infatti; oro a mucchi, in pagliuole ed in polvere, da tuffarci dentro le braccia fin sopra il gomito; oro ad ogni piè sospinto, a colonne, a pilastri, a scaglioni, a piramidi; oro a bizzeffe, in quel paese di Veraguas, dove bastava smuovere un pochettino le zolle, per trovar le radici degli alberi affondate in quel coso giallo lucente; oro nel fiume dello Yaque, presso San Domingo, ove del prezioso metallo non erano fatte solamente le arene del fondo, ma i ciottoli delle due rive, e i massi e le scogliere delle svolte. Che poesia, quella delloro! E come è nata? Tutta per amore della sua bellezza in sè, o non per lacquisto, che rende così facile, dogni desiderata fortuna?

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