Se non che tali polemiche partigiane, surrogate ormai da tante altre peggiori, sono oggi fuori di moda. L'odierno positivismo storico, alquanto volgaruccio e che spesso si scambia, non so perchè, per libertà di pensiero, le scarta tutte, riferendo la grande illusione destata da Pio IX e i successivi disinganni e la catastrofe finale all'assoluta contraddizione storica e dottrinale, che è fra dogma e libertà, Papato ed Italia, e concludendo: «è accaduto così, perchè doveva accadere così e non poteva accadere altrimenti.» Ma che razza di positivismo è mai questo, che introduce una simile e così inesorabile fatalità nella storia? che per amore d'un preconcetto, sia vero o no, toglie ogni significato e ogni ragion d'essere ai fatti come accaddero e persino ai principali attori della storia ogni responsabilità? Perocchè se quella contraddizione è così assoluta e le conseguenze di essa sono così fatali, in tal caso, mi pare, il primo a dover uscire assolto da ogni torto avrebbe a essere Pio IX. Mettete pure un Napoleone al posto del povero curato di campagna, e il risultamento potrebbe forse essere diverso? E che vogliono significare allora tutti quei popoli, che insorgono, e tutte quelle franchigie e libertà rivendicate, e tutte quelle battaglie combattute al grido di viva Pio IX in Italia e fuori d'Italia?
È tale e così grande spettacolo e così nuovo nella storia, che lo stesso Pio IX, quantunque angosciato già di mille scrupoli e di mille dubbiezze, ne è estasiato per primo, e dopo avere nell'allocuzione del 10 febbraio 1848, scritte le parole famose: «benedite, gran Dio, l'Italia», ripete a viva voce il giorno seguente a tutto il popolo quelle parole medesime, che avranno un'eco così potente, e quando Milano e Venezia e Parigi e Vienna sono insorte al grido di viva Pio IX, egli nell'allocuzione del 30 marzo non potrà a meno di dirsi commosso che i conforti della religione abbiano preceduto colà i pericoli dei cimenti e inspirati quegli eroismi patriottici, quei sentimenti di generosità verso i vinti, tutti segni esteriori di quell'accordo pieno, e sia pur momentaneo, di tutte le facoltà della coscienza umana, che formò allora la poesia nuova, l'universalità vera e mai più rinnovatasi di tutto il moto del 1848 e che sia pure dinanzi alla critica filosofica una grande illusione, non è meno un fatto per questo, i cui ricordi Cesare Correnti (un progressista impenitente) chiamava tanti anni dopo, con una delle sue frasi sentimentali, le reliquie d'un amore tradito, e su cui ben meschino è il positivismo storico, che può passare senza rispetto, senza risentirne le profonde emozioni di quei giorni, e peggio ancora che può sfatarlo del tutto per orgogli razionalisti, che in sostanza valgono quanto la fede delle beghine, o per passioni politiche, che valgono ancora di meno.
Fino a questo momento è il sogno del Primato di Vincenzo Gioberti, che sembra divenuto realtà; fino a questo momento Pio IX è quel Papa e l'Italiano è quel popolo, che il Gioberti ha sognato. La situazione è dominata ancora da questa potente idealità, e per qual via si giunge a vederla poi dominata invece da un'idealità affatto opposta, e surrogato insomma, per dir tutto in una parola, al Gioberti il Mazzini? Per via dell'equivoco, che passa fra Pio IX ed il popolo, al quale equivoco ho già accennato, e che ingrossando via via compirà il vero e irrimediabile distacco. Quest'equivoco s'insinua come un cuneo tra popolo e principe, e a profondarlo sempre più e ad affrettare il distacco raddoppiano i colpi i retrogradi da un lato e i demagoghi dall'altro. La malafede è qui, non in quel popolo e in quel principe, sbalestrati entrambi, se si vuole, da una reciproca illusione, ma per parecchio tempo ancora entrambi, agitati già forse da dubbi, scrupoli e dolorosi ricordi, ma schietti, sinceri, in buona fede nei loro intenti e nelle loro speranze. Quando questa buonafede verrà meno nel popolo e nel principe, sarà segno che retrogradi e demagoghi, gesuiti e mazziniani hanno compita l'opera loro.
O io m'inganno a partito, o questa (a volerla fare) è la psicologia, positivista davvero, che in quell'ambiente e in quel momento ci fa scoprire i documenti umani di questa storia.
In forza di quell'equivoco niuno porrà mente alle riserve, che il Papa ha fatte, agli ammonimenti quasi severi e corrucciati, che si contengono nelle sue due allocuzioni del 10 febbraio e del 30 marzo. E le parole stesse, ch'egli, parlando al popolo dal balcone del Quirinale, ha immediatamente soggiunte al suo famoso: «benedite, gran Dio l'Italia» niuno le ha sentite o le ha volute sentire. Eppure egli avea detto chiaro e tondo: «non mi si facciano domande, che non posso, non debbo, non voglio ammettere,» e Pellegrino Rossi, che sentì quelle parole, disse, volgendosi a Marco Minghetti, ch'era con lui: «il Papa ha ricorso a un rimedio eroico; per questa volta sarà esaudito, ma guai, se si avvisasse di riparlare al popolo; ogni suo prestigio sarà perduto.» E così fu in realtà!
D'ora innanzi si procede più in fretta, ma la fiducia reciproca va scemando nel Papa e nel popolo, appunto perchè il primo non concede, nè resiste a tempo, e la concessione è sempre più larga o slargata al di là delle sue intenzioni, ed al secondo pare sempre di non aver nulla ottenuto, se non ottiene di più.
Così in poco d'ora, dal 12 febbraio al 10 marzo, si passa da un Ministero misto di laici e di prelati ad un Ministero quasi laico del tutto ed in cui entra col Pasolini e col Minghetti Giuseppe Galletti, i primi due le più spiccate figure del partito riformista e moderato nello Stato Pontificio, l'altro lo specimen precoce di quei radicali ed ex cospiratori, che a cuor leggero trapasseranno dal Ministero Papale alla rivolta del 16 novembre, da questa alla Costituente, dalla Costituente alla Repubblica.
Il 14 marzo anche Pio IX concesse la Costituzione, ed il Ministero che doveva attuarla, non solo non l'avea pensata e compilata lui, ma neppure la conosceva, perchè manipolata in segreto da una Commissione di prelati e di cardinali. Pellegrino Rossi, appena vide quell'informe intreccio di poteri, di giurisdizioni e di diffidenti cautele, annientantisi l'una coll'altra, la giudicò così: «è una guerra legalizzata fra sudditi e sovrano;» giudizio profondo, degno dell'uomo, ma giudizio solitario allora, e a cui nessuno partecipò.
C'era ben altro! Ben altra guerra premeva: la guerra d'indipendenza, il porro unum necessarium del Balbo, ed ecco il Papa in conflitto prima di tutto con sè stesso e coll'ufficio suo di pastore di tutti i Cattolici; ecco che il Ministero, il quale nella sua maggioranza non chiede di meglio che far la guerra e assecondare l'impeto d'entusiasmo, da cui è spinto tutto il paese, ecco che il Ministero si trova tosto alle mani il più intricato dei problemi: far dichiarare al Papa la guerra contro una nazione cattolica, o come principe metterlo in aperto contrasto con gli stessi suoi Ministri e coi sudditi, tutti d'un animo in tale questione.
L'unica soluzione del problema pare una dieta federativa di stati italiani, a cui partecipi il Papa e che dichiari essa la guerra e stabilisca essa il contributo d'uomini e danaro spettante a ognuno dei confederati. Così la responsabilità diretta del Papa sarebbe eliminata, ed i suoi scrupoli, legittimi o no, sarebbero quietati.
Chi n'avesse il tempo, signore, bisognerebbe seguire questo negoziato in tutte le sue fasi, vederlo trattato sotto tutte le forme, travagliarvisi intorno gli animi più elevati e i più eletti ingegni del tempo, indagare perchè non riesca mai e quanto per colpa delle intrinseche sue impossibilità, quanto per colpa degli eventi e quanto infine per colpa degli uomini. Certo la sua non riescita è la cagione più larga della rovina del gran moto del 1848, ma Pio IX, si noti bene, ci ha forse meno colpa di tutti gli altri, meno di certo degli statisti Piemontesi, i quali temono sempre di compromettere le aspirazioni dinastiche di Casa Savoia, meno di certo del Borbone di Napoli, il quale in piena malafede non pesca mai in questo negoziato se non un mezzo indiretto per domare la ribellione di Sicilia.