Il giovine studente sentiva rimorso di essersi vergognato del suo povero amico, in quella stessa guisa che mille ottocento anni addietro un pescatore di Galilea si era pentito d'aver rinnegato il maestro nell'anticamera del pretorio di Gerusalemme. Ed anche lui voleva fare una specie di ammenda, non già andando a confessare d'aver fatto le viste di non vedere l'amico e il suo giubbone color tabacco, che una tal confessione sarebbe stata superiore alle sue forze; ma andando almeno a casa sua, come per vedere se fosse arrivato da Mondovì, e per passare un'ora con lui. Sapienti rappezzi, immaginati da una società rimpiccinita, per rimediare senza troppa vergogna agli errori commessi, chi potrà mai lodarvi abbastanza?
Filippo Bertone abitava una meschina cameretta, anzi una stamberga, nelle soffitte d'una vecchia casa in via degli Argentieri, che era tra le più popolose, ma altresì tra le meno signorili dell'antica Torino. Un letticciuolo di contro alla parete, che faceva venir freddo solamente a vederlo, due sedie zoppe, un tavolino presso la finestra, che dava sui tegoli neri del tetto, un baule spelacchiato che doveva offrire ai visitatori un modus sedendi non guarentito loro dal picciol numero e dalla poca sicurezza delle sedie, un catino sul suo trespolo di legno, e finalmente una pila di libri su d'una stufa rotta erano tutti gli arredi della cameretta di Filippo Bertone. Non c'era armadio, nè portamantelli, per gli abiti dello studente; ma bisogna anche dire che Filippo Bertone non aveva abiti di ricambio; il suo giubbone di color tabacco lo portava con sè, e quando, per le ore di sonno, o dello studio in camera, dovea pur separarsene, un umile chiodo alla parete gli serviva d'appiccagnolo. I mattoni del pavimento, corrosi dal lungo uso di parecchie generazioni d'inquilini, smossi la più parte dai loro alveoli di calce, ballavano sotto i piedi, quasi a dimostrar loro la instabilità delle cose umane. Le imposte sgangherate dell'unica finestra insegnavano la medesima filosofia ed agguerrivano lo spirito alle burrasche della vita. Ed anche per esser la camera sotto i tegoli, in estate ci si schiattava dal caldo; per contro, nell'inverno ci si moriva dal freddo. Ma già, era opinione degli Spartani, che i giovani dovessero formarsi ad una simile scuola e prosperarvi per giunta. Il Bertone, a dir vero, non ci prosperava; ma bisogna soggiungere ad onor suo che ci si era avvezzato.
Nicolino Ariberti salì rapidamente le otto scale che mettevano a quel nido di rondini, senza aver chiesto nemmeno al portinaio se l'amico suo fosse in casa. Dimenticanza perdonabile invero, perchè quella casa non aveva, per custode all'ingresso, nemmanco il più umile tra i censori d'Apelle, che era, come sapranno i lettori, un maneggiatore di lesina. E giunto all'ultimo piano, tanta era in lui la pratica del luogo, sebbene si trovasse al buio, trovò l'uscio della stamberga, e stese la mano alla corda unta e bisunta del campanello, che rispose con un allegro tintinnio alle sue confidenti strappate.
Subito dopo, un passo frettoloso si udì mettere in iscompiglio i mattoni del pavimento, mobili sulla base e vocali quanto il sasso di Melinone. Ma quello non parve all'Ariberti il passo dell'amico Bertone, e il fruscio di una gonna che accompagnava quel passo e quella musica di mattoni, lo fece pensare piuttosto alla signora Paolina, megèra d'aspetto, e padrona di casa per condizione sociale, che forse era là, nell'assenza dell'amico, a rassettare la camera.
Ma anche qui s'ingannava. La voce che poco stante gli domandò chi cercasse, non era quella, punto armoniosa della signora Paolina.
Amici!rispose egli, mentre in cuor suo domandava a sua volta chi diamine poteva essere là dentro, e del sesso femminile, attirato dalle lusinghe di un giubbone di color tabacco, o dagli agi sibaritici di due sedie zoppe e d'un baule spelacchiato.
L'uscio si aperse, e Nicolino Ariberti si vide davanti una ragazza. Almeno, così gli parve nella mezza luce che disegnava i contorni flessuosi e snelli della persona di lei, senza lasciargli scorgere le fattezze del volto. La donna per fermo vide meglio lui, e non dovette sembrargli uomo da chiudergli l'uscio in faccia; chè anzi fu pronta a tirarsi da un lato per lasciarlo passare.
Ariberti rimase perplesso, senza profittare di quel tacito invito. Cercava l'amico Bertone e trovava in quella vece una donna sconosciuta. Chi era costei? Nel tirarsi da banda che ella avea fatto, la luce della finestra la coglieva di fronte ed egli potè rilevarne in di grosso i connotati. Era difatti una ragazza, che poteva avere dai diciotto ai vent'anni, piuttosto alta, abbastanza in carne e di buon colore, sebbene desse un tal po' nell'arsiccio, accusando l'origine campagnuola; gli occhi piccini e maliziosi, il naso tirato leggermente all'insù, la bocca piccola e sorridente, i capegli biondi e indocili al pettine; una figura chifonnée, avrebbe detto il Candioli; in complesso la bellezza del diavolo, che si compone per un terzo di carne, per un terzo di gioventù, e per un terzo d'irregolarità senza difetti fisici apparenti.
Tutte queste cose egli vide in un batter d'occhio. Ella in pari tempo ravvisò in lui un giovine di primo pelo, un po' timido, ma di bello aspetto e signorilmente vestito; perciò lo accolse senza paura, accennandogli che volesse entrare, mentre collo sguardo curioso parea dirgli: «a che debbo io l'onore d'una sua visita?» oppure, se la frase vi par troppo pettinata per una ragazza sua pari: «bel giovine, che cosa volete da me?»
Scusi, signorina,balbettò l'Ariberti, impacciato come un pulcino nella stoppia;cercavo un amico che abita qui il signor Filippo Bertone.
Qui non abitano Bertoni;diss'ella, ma senza aver l'aria di mandarlo via;ci abito io, Giuseppina Giumella, fiorista presso madama Falcheri, in via Doragrossa, numero 15.
Tutto quello sfoggio di indicazioni non commosse pure una fibra nel cuore di Nicolino Ariberti.
Signorina, scusi,ripetè egli colla medesima confusione di prima.L'amico mio abitava qui l'anno scorso È uno studente di filosofia cioè lo era l'anno scorso Credevo che ci fosse tornato
In filosofia?
No, volevo dire ad abitare qui. Ma se non c'è più, mi ritiro. Le chiedo scusa Buon giorno, signorina.
Quando la signora Giuseppina Giumella si avvide che l'amico Bertone non era un pretesto e che quel timido giovinetto non cercava proprio di lei, uscì sul pianerottolo per fargli servizio e chiamare la padrona di casa.
Aspetti,disse ella,adesso chiederemo alla signora Paolina, e chi sa ch'ella non sappia dove è andato a stare il suo amico Bertone, io non sono qui che da un mese. Signora Paolina!
Chi è?domandò da un uscio in fondo al pianerottolo una voce chioccia ben nota a Nicolino Ariberti.
Son io, signora Paolina;rispose egli, per mostrare alla ragazza che non era davvero uno sconosciuto lassù;Sono Ariberti, l'amico di Filippo Bertone.
In quel mentre l'uscio di fondo si aperse, e la megèra comparve sulla soglia.
Ah, è lei, signor Ariberti? Cerca del signor Filippo?
Sì; mi hanno detto che è giunto a Torino e venivo a salutarlo. Credevo che fosse tornato nella sua cameretta, che gli piaceva tanto
Oh, per questo ci aveva ragione;soggiunse la vecchia.Una camera come quella, non fo per dire, ma non si trova in tutta la via degli Argentieri. E difatti è venuto l'altro giorno da me per riaverla; ma che vuole? Io già l'avevo appigionata. Colpa sua, perchè, quando è partito l'estate scorsa, mi ha lasciato nel dubbio del suo ritorno a Torino. È un bravo giovane, quantunque stia male a contanti, e mi è rincresciuto di perderlo. Ma non potevo mica sacrificarmi Capirà, signor Ariberti: dodici lire al mese sono poco e son molto, secondo i casi.