Anton Barrili - La notte del Commendatore стр 12.

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Eh, capisco, dodici lire già sono una somma.

Almeno per me;proseguì la signora Paolina, Ah, se si fosse trattato di Lei, signor Ariberti, che ci ha i denari a palate

Non tanto, signora Paolina, non tanto;gridò Nicolino Ariberti ridendo.Son figlio di famiglia, non lo dimentichi.

Sicuro, e un bravo giovane, come ce n'è pochi. La non dubiti; il signor Filippo le rendeva giustizia. Egli mi diceva sempre: veda, signora Paolina; di tutti i miei compagni, il migliore, il più sincero, il più studioso, è l'Ariberti.

Caro Filippo!esclamò egli, mentre il rimorso, di cui sanno i lettori, gli dava un'altra e poderosa stretta.E sa Lei almeno, dove sia andato a mettere il nido?

Oh, La non dubiti; appena lo ha trovato è corso ad avvisarmene. Aspetti, ora mi raccapezzo. Santa Teresa No, San Francesco di Paola Nemmeno! Di San Francesco me ne ha parlato, ma là c'era un quartierino di tre camere, un po' caro per la sua borsa. Ecco, ora mi ricordo; è andato proprio a stare in via Santa Teresa, la seconda casa a sinistra; e mi pare che abbia detto il numero 4.

Ultimo piano, m'immagino.

Per l'appunto. Sui tetti c'è l'aria buona. Ma dopo tutto il signor Filippo non è parso molto contento del suo nuovo alloggio. La camera è brutta e piccola. Si figuri; un terzo della mia, e non ci ha neanche la stufa.

Non è poi un gran male;pensò l'Ariberti;avercela guasta o non averne è tutt'uno.

Il lettore discreto capirà che quel suo pensiero il nostro adolescente se lo tenne gelosamente per sè. La signora Paolina credeva nella bontà della sua stufa e a screditargliela le si sarebbe data una stilettata nel cuore.

Grazie, signora Paolina;diss'egli in quella vece.Mi sa mill'anni di vedere Filippo. Corro in via Santa Teresa.

E fatte altre poche parole di commiato, il nostro Nicolino infilò le scale, dopo aver risposto con una scappellata al gentile saluto e al profondo inchino della signora Giuseppina Giumella, fiorista in Doragrossa, a cui certe parole della padrona di casa avevano dato un gran concetto delle ricchezze di quel timido visitatore.

Per altro, Nicolino Ariberti non la passò così liscia, come potrebbe argomentarsi da questo commiato. A mezzo le scale fu ancora trattenuto da una chiamata della signora Paolina, che aveva dell'altro ancora da dirgli. Laonde si fermò ossequente al suono delle venerande ciabatte, ed aspettò che avessero fornita tutta la distanza che già era tra lui e l'ultimo piano.

Scusi, sa;gli disse la megèra, abbassando la voce con aria di mistero, quando fu giunta sul pianerottolo dov'egli era rimasto inchiodato;vorrei pregarla di un'imbasciata pel signor Filippo. La camera che gli piace tanto, un giorno o l'altro sarà libera. La ragazza che Lei ha veduto non vuol rimanerci più molto. Si figuri che siamo al venti, e non ha ancora pagato l'affitto di questo mese. Già, se non pensa a trovarsi un benefattore, poverina, come ha da fare, con quel gramo mestiere che ha per le mani?

Un benefattore!esclamò Ariberti, a cui l'età non dava di capire alle prime.Se posso far io qualche cosa.

E metteva mano, così dicendo, alla borsa.

Oh, non a me, non a me!rispose frettolosa a quel gesto la signora Paolina, come se si fosse scandalezzata all'idea di dover intascare la somma di prima mano.Se vuol fare una carità fiorita a quella povera ragazza, ci vada lei; quanto a me, Dio mi guardi; potrebbe parere che avessi cantato.

Nicolino Ariberti nicchiava. Con che fronte si sarebb'egli presentato a quella Flora cittadina, che aveva veduta a mala pena sul suo uscio, e come avrebbe potuto dicevolmente consegnarle la tenue moneta di dodici lire?

In verità, non ardisco;diss'egli, dopo essere stato un poco perplesso.

E fu per rimettere la borsa in tasca. Ma qui la signora Paolina si avvide di aver fatto una papera.

Già, capisco;ripigliò prontamente.Lei vuol fare il bene e non averne i ringraziamenti. Si vede proprio che ha buon cuore. Dia dunque il danaro a me; le dirò io donde viene.

All'Ariberti non pareva vero di cavarsela in quel modo. E alleggerito di dodici lire, ma contento di avere aiutato quella povera figliuola, che non ci aveva lì per lì un benefattore a darle una mano, se ne andò in traccia di Filippo Bertone.

Per altro, egli non doveva sfuggire alla gratitudine della signora Giuseppina Giumella. Il bene che si fa, non si perde. Anche il nostro Nicolino Ariberti se lo avrà a ritrovare tra' piedi. Seguitiamolo frattanto in via di Santa Teresa.

Filippo Bertone era andato ad abitare laggiù. La rondine, al suo ritorno da quelle parti, aveva trovato occupato il vecchio nido ed era andata più lungi a fabbricarsene un altro. L'altezza di questo era a un dipresso la medesima, cioè sotto le travi del tetto. E non è questa forse la postura più acconcia pei nidi? Dopo tutto, il primo nido di Filippo Bertone dava sopra una sequela, anzi una confusione, di tetti più bassi; laddove il secondo dava in una corte abbastanza spaziosa, dov'erano certe scuderie, e vedeva le spalle d'una gran casa, che poteva, dall'altra banda, pretendere al nome e alla dignità di palazzo.

A tutta prima, quel luogo gli era parso un po' troppo signorile e da farlo stare in soggezione col vicinato. Ciò pel di fuori. Quanto all'interno, la camera era più stretta, e Filippo Bertone pensava con raccapriccio che non avrebbe potuto scaldarcisi nell'inverno, come nell'altra in via degli Argentieri.

Il nostro Bertone ci aveva un metodo suo per riscaldarsi d'inverno. Andava in volta su e giù per la camera, imprimendo alle braccia penzoloni un moto isocronico che le faceva combinare ad ogni tratto in croce di Sant'Andrea, mentre le palme andavano regolarmente a battere sotto le ascelle. S'intende che a queste nozze non era invitato il giubbone color di tabacco. Poverino! Un altro poco di strofinio, e se n'andava in isbrendoli.

Filippo Bertone aveva ingegno, e il lettore ha già capito, da una certa stoccata del Balestra all'amico Ferrero, che egli in iscuola faceva qualche volta il lavoro suo e quello degli altri. Ma la sua valentìa non si fermava lì; che a volte, trattandosi di broda scolastica, anche uno sgobbone ci riesce. Filippo non era solamente un giovine studioso; aveva, come suol dirsi, due corde al suo arco, la svegliatezza e la costanza, due cose che vanno così raramente di conserva nei giovani.

Come mai questo miracolo di ragazzo era nato da un umile maniscalco e da una povera massaia di villaggio? Arcani impenetrabili dell'esistenza, i quali, bisogna pur dirlo, sono spesso mirabilmente aiutati dalla mancanza di svaghi d'una casa tapina e dalla fortunata presenza d'una buona scuola di provincia.

Dopo tutto, gli è per l'appunto in provincia che si vedono di questi prodigi. Nelle capitali (e un italiano può aggiungere eziandio nelle metropoli) le buone scuole sono molto più rade; forse per la ragione che il maestro non può darsi intieramente alla cattedra, essere totus in illa, come direbbe Orazio, tanti sono i sopraccapi che lo frastornano, gli svaghi che lo trattengono, le ambizioni che lo tirano in alto. I mediocri, e spesso anche i bisognosi, ci aggiungono la cura delle ripetizioni a casa, conseguenza e cagione a sua volta delle distrazioni in iscuola.

Guardate in quella vece il collegio d'una città di provincia. Le voci, i rumori, le vanità profane del mondo, o non giungono laggiù, o vi mandano a mala pena un'eco affievolita, cioè a dire quanto basta perchè laggiù non si credano a dirittura segregati dal mondo. E fermi lì; il maestro non pensa che alla scuola; ci si distende, dirò meglio, ci si sprofonda; può darsi che ci si dimentichi, può darsi anco che ci si adiri; ma non dubitate, c'è tutto. Spesso è una vittima del cieco caso; frate, chierico, o secolare che sia, è un ingegno che in altri tempi avrebbe potuto dar frutti per sè, e in quella vece s'è ridotto a far fruttificare l'ingegno degli altri. Lo si direbbe un albero che s'adatta a far da palo, e si lascia coprir tutto dai pampini della vite che gli s'intreccia ai rami, e si sostiene, s'innalza, si soleggia per lui. E tuttavia, dura in quell'uomo il sentimento della sua forza, comunque rimasta inoperosa e latente. Sansone dai capegli recisi, aquila a cui furono tronche le penne maestre medita le grandi intraprese, anela agli spazi lontani; e questa sua bramosìa, questo bisogno d'altro, si apprendono allo scolaro. Un maestro cosiffatto ama espandersi, mettere in comune co' suoi discepoli ciò che ha studiato e ciò che viene man mano leggendo. Con chi altri potrebbe parlarne, chetare i bollori della sua mente, avida da un tempo e riboccante di nuovi tesori? Donde avviene che, imbevuti di quella pioggia assidua e benefica, i giovani alunni escano dal collegio più colti e meglio compresi della vita nuova, che non i loro compagni delle grandi città, dove pure questa vita è pane quotidiano, aria respirabile e chi più n'ha ne metta.

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