Dario avrebbe preferito morire lì piuttosto di dover rivivere tutto di nuovo. Ma non poteva controllare neppure questo: era incatenato lì, inerme. Quanto ancora sarebbe durata quella sua tortura? Avrebbe dovuto assistere alla morte di ogni cosa che amava al mondo prima di morire lui stesso?
Dario chiuse ancora gli occhi, cercando disperatamente di eliminare i ricordi. Così facendo, gli venne alla mente un ricordo della sua prima infanzia. Stava giocando davanti alla capanna del nonno con un bastone. Stava colpendo ripetutamente un albero fino a che suo nonno gli strappò di mano il bastone.
“Non giocare con i bastoni,” lo rimproverò. “Vuoi attirare l’attenzione dell’Impero? Vuoi che pensino che siamo dei guerrieri?”
Il nonno ruppe il bastone sul proprio ginocchio e Dario si incollerì. Quello era più che un bastone: quello era il suo bastone dei poteri, l’unica arma che aveva. Quel bastone significava ogni cosa per lui.
Sì, voglio che pensino che sono un guerriero. Non voglio che mi si conosca per nient’altro che questo, aveva pensato.
Ma mentre suo nonno si girava e si allontanava velocemente non aveva avuto il coraggio di dirlo ad alta voce.
Dario aveva raccolto il bastone rotto e aveva tenuto i pezzi in mano con le lacrime che gli scendevano sulle guance. Un giorno, aveva giurato, si sarebbe vendicato su tutti loro: la sua vita, il suo villaggio, la loro situazione, l’Impero, qualsiasi cosa e ogni cosa che non era in grado di controllare.
Li avrebbe distrutti tutti. E lo avrebbero conosciuto per essere nient’altro che un guerriero.
*
Dario non sapeva quanto tempo fosse passato quando si svegliò, ma notò immediatamente che il brillante sole della mattina si era trasformato in un pomeridiano sole arancione che volgeva al tramonto. Anche l’aria era molto più fresca e le sue ferite si erano irrigidite rendendogli più difficile muoversi o addirittura spostarsi in quello scomodo carro. I cavalli lo facevano sobbalzare ininterrottamente sul suolo roccioso del deserto e la sensazione del ferro che gli sbatteva contro la testa lo faceva sentire come se gli stessero frantumando il cranio. Si strofinò gli occhi togliendosi lo sporco dalle ciglia e si chiese quanto ancora distasse la capitale. Gli sembrava di aver ormai viaggiato fino all’altra parte del mondo.
Sbatté le palpebre diverse volte e guardò fuori, aspettandosi come sempre di vedere un orizzonte vuoto, un deserto di desolazione. Ma questa volta fu sorpreso di vedere qualcosa di diverso. Si mise a sedere più eretto per la prima volta.
Il carro iniziò a rallentare, il rombo dei cavalli si acquietò un poco e le strade si fecero più lisce. Mentre scrutava il nuovo paesaggio Dario vide un panorama che mai avrebbe dimenticato: lì, ergendosi dal deserto come una sorta di civiltà perduta, si trovavano delle massicce mura cittadine, cancelli di oro luccicante, mura e parapetti gremiti di soldati. Dario capì all’istante che erano arrivati: era la capitale.
Il rumore della strada mutò, diventando un suono di legno vuoto e Dario abbassò lo sguardo vedendo che la carrozza veniva condotta al di sopra di un ponte levatoio. Passarono oltre centinaia di soldati allineati lungo il ponte, tutti sull’attenti al loro passaggio.
Un forte cigolio riempì l’aria e Dario guardò davanti a sé vedendo le porte dorate, incredibilmente alte, che si spalancavano come ad accoglierlo. Vide un luccichio al di là: era la città più magnifica che mai avesse visto e capì, senza ombra di dubbio, che quello era un posto dal quale non sarebbe potuto scappare. Come a confermare i suoi pensieri udì un lontano rombo, un rumore che riconobbe all’istante: era il fragore dell’arena, una nuova arena, un posto di uomini che chiedevano sangue, il posto che sarebbe di sicuro stato l’ultimo che avrebbe visitato. Non ne aveva paura: pregava solo Dio di morire sui proprio piedi, con la spada in mano, in un ultimo grandioso atto di valore.
CAPITOLO OTTO
Thorgrin tirò un’ultima volta la corda dorata con mani tremanti, Angel al suo fianco e il sudore che gli colava sul viso. Alla fine arrivò in cima alla parete rocciosa e mise piede a terra, prendendo fiato. Si voltò e si guardò alle spalle vedendo, decine di metri più sotto, alla base della ripida scogliera, le onde dell’oceano che si infrangevano e la loro barca sulla spiaggia che sembrava così piccola: era sorpreso di vedere quanto in alto si era arrampicato. Udiva lamenti tutt’attorno a lui e voltandosi vide Reece e Selese, Elden ed Indra, O’Connor e Mati che arrivavano tirandosi sull’altopiano dell’Isola della Luce.
Thor rimase in ginocchio, con i muscoli esausti, e guardò l’Isola della Luce davanti a sé. Il cuore gli sprofondò nel petto e provò un rinnovato senso di presagio. Prima ancora di vedere la scena orribile poté sentire l’odore delle ceneri ardenti, l’odore pesante del fumo che impregnava l’aria. Poté anche sentire il calore, i fuochi che ardevano, i danni creati da chissà quale creatura avesse devastato quel posto. L’isola era nera, bruciata, distrutta, tutto ciò che prima era stato così idilliaco, tutto ciò che era sembrato così invincibile, ora era stato tramutato in cenere.
Thorgrin si rimise in piedi e non attese tempo. Iniziò ad avventurarsi nell’isola con il cuore che gli batteva forte in petto mentre cercava ovunque Guwayne. Considerando la condizione del posto odiava pensare a cosa avrebbe potuto trovare.
“GUWAYNE!” gridò correndo tra le colline riarse e portandosi le mani alla bocca.
La voce gli tornò indietro come un’eco contro le colline, come a prenderlo in giro. Poi nient’altro che silenzio.
Giunse un ruggito solitario da qualche parte in alto e Thor sollevò lo sguardo vedendo Licople che volava in cerchio. Licople ruggì di nuovo, scese in basso e volò verso il centro dell’isola. Thor sentì improvvisamente che lo stava conducendo da suo figlio.
Si mise a correre seguito dagli altri, attraversando quella desolazione bruciacchiata e cercando ovunque.
“GUWAYNE!” gridò ancora. “RAGON!”
Mentre Thor guardava la devastazione del paesaggio annerito, provava una crescente certezza che niente potesse essere sopravvissuto in quel posto. Quelle ondeggianti colline, una volta così abbondanti di erba ed alberi erano ora ridotte a un paesaggio segnato dalla battaglia. Thor si chiedeva quale genere di creature, oltre ai draghi, potessero causare un tale disastro, e cosa più importante chi le controllasse, chi le avesse mandate lì e perché. Perché suo figlio era tanto importante che qualcuno mandasse un esercito contro di lui?
Thor guardò l’orizzonte, sperando di vedere un qualche segno, ma il suo cuore gli sprofondò in petto quando non scorse nulla. Vide invece solo fiamme e braci che riempivano le colline.
Voleva credere che Guwayne fosse in qualche modo sopravvissuto a tutto questo. Ma non vedeva come potesse averlo fatto. Se uno stregone potente come Ragon non poteva fermare le forze che erano state lì, come poteva lui salvare suo figlio?
Per la prima volta da quando si era imbarcato in quella missione, Thor iniziava a perdere la speranza.
Continuarono a correre risalendo e scendendo le colline e quando furono in cima a una particolarmente grande, improvvisamente O’Connor, che era davanti al gruppo, indicò freneticamente qualcosa.
“Lì!” gridò.
O’Connor indicava di lato, verso i resti di un antico albero che era ora abbrustolito, con i rami rinsecchiti. Guardando con maggiore attenzione Thor scorse, sdraiato accanto ad esso, un corpo immobile.