Si udì un altro schiocco di frusta e Godfrey guardò oltre vedendo i supervisori che si facevano strada nel gruppo frustando gli schiavi senza particolare motivo, evidentemente solo per far sentire la loro presenza. Guardandosi alle spalle notò, proprio dietro di lui, i volti terrorizzati di Akorth e Fulton, con gli occhi che guizzavano attorno e accanto a loro le espressioni calme e determinate di Merek e Ario. Godfrey era meravigliato che quei due ragazzini mostrassero più compostezza e coraggio di Akorth e Fulton, due uomini grandi e grossi, e pure ubriachi.
Continuarono a camminare e Godfrey sentì che si stavano avvicinando alla loro destinazione, qualsiasi essa fosse. Ovviamente non poteva lasciare che arrivassero lì: doveva fare qualcosa quanto prima. Aveva ottenuto il suo scopo, era riuscito ad entrare a Volusia, ma ora doveva liberarsi da quel gruppo prima che tutti venissero scoperti.
Si guardò in giro e notò qualcosa che gli fece balzare il cuore in petto: i supervisori erano ora più raggruppati verso l’inizio della carovana di schiavi. Aveva un certo senso: dato che tutti gli schiavi erano incatenati insieme, non c’era ovviamente nessun posto dove potessero fuggire e i supervisori non sentivano giustamente la necessità di sorvegliare il retro del gruppo. A parte l’unico supervisore che camminava su e giù lungo le righe frustandoli, non c’era nessuno a impedire loro di scivolare via dal retro della carovana. Potevano scappare, svignarsela in silenzio tra le strade di Volusia.
Godfrey sapeva che dovevano agire velocemente, eppure il cuore gli batteva forte in petto ogni volta che pensava di mettere in atto quella mossa coraggiosa. La sua mente gli diceva di andare, ma il suo corpo restava esitante, incapace di raccogliere tutto il coraggio necessario.
Godfrey ancora non credeva che fossero lì, che ce l’avessero veramente fatta a passare entro le mura. Era come un sogno, un sogno che diventava sempre più brutto. L’intontimento causato dal vino si stava dissipando, e più svaniva più lui si rendeva conto che la sua idea era stata profondamente sbagliata.
“Dobbiamo uscire da qui,” bisbigliò Merek chinandosi verso di lui. “Dobbiamo fare qualcosa.”
Godfrey scosse la testa e deglutì, con il sudore che gli bruciava gli occhi. Una parte di lui sapeva che Merek aveva ragione, ma un’altra parte lo costringeva ad aspettare il momento giusto.
“No,” rispose. “Non ancora.”
Godfrey si guardò attorno e vide ogni genere di schiavi incatenati e trascinati attraverso le strade di Volusia, non solo schiavi di pelle scura. Era come se l’Impero fosse riuscito a catturare ogni sorta di razza da ogni angolo del mondo, chiunque non appartenesse alla razza dell’Impero, chiunque non avesse pelle gialla e lucida, imponente altezza, spalle larghe e le piccole corna dietro le orecchie.
“Cosa stiamo aspettando?” chiese Ario.
“Se corriamo in mezzo alle strade,” disse Godfrey, “potremmo essere troppo evidenti. Potremmo anche essere catturati. Dobbiamo aspettare.”
“Aspettare cosa?” insistette Merek con la frustrazione nella voce.
Godfrey scosse la testa disorientato. Si sentiva come se il suo piano stesse crollando.
“Non lo so,” disse.
Svoltarono a un’altra curva e così facendo l’intera città di Volusia si aprì davanti a loro. Godfrey guardò quella veduta sbalordito.
Era la città più incredibile che avesse mai visto. Godfrey, essendo figlio di un re, aveva visitato grosse città, città grandiose e ricche, fortificate. Aveva visitato alcune delle più belle città del mondo. Poche erano in grado di competere con la maestosità di Savaria, di Silesia, o ancor più della Corte del Re. Non si lasciava stupire facilmente.
Ma non aveva mai visto nulla del genere. Era una combinazione di bellezza, potere e ricchezza. Soprattutto di ricchezza. La prima cosa che colpì Godfrey furono tutti gli idoli. Ovunque in giro per la città erano collocate statue di idoli e dei che Godfrey neppure conosceva. Uno sembrava essere un dio del mare, un altro del cielo, un altro delle colline… ovunque c’erano masse di persone che si chinavano davanti ad esse adorandole. In lontananza, torreggiante sulla città, c’era un’enorme statua d’oro che si levava di una buona trentina di metri, raffigurante Volusia. Una grande folla di persone era raggruppata e china attorno ad essa.
Un’altra cosa che sorprese Godfrey furono le strade ricoperte d’oro, brillanti e immacolate, tutto meticolosamente lindo e pulito. Tutti gli edifici erano fatti di pietra perfettamente squadrata, non c’era un solo blocco fuori posto. Le strade della città si allungavano ovunque e la città sembrava distendersi all’orizzonte. Ciò che lo colpì ancora di più furono i canali e i corsi d’acqua che si intrecciavano con le vie, a volte disegnando archi, a volte cerchi, portando le azzurre correnti dell’oceano e facendo da condutture, come l’olio che faceva funzionare quella città. Tutti i canali erano pieni di vascelli dorati e decorati che si facevano aggraziatamente strada lungo quei corsi d’acqua passando tra le strade.
La città era piena di luce che rifletteva dal porto; era dominata dal sempre presente suono delle onde che si infrangevano. Disegnata a forma di ferro di cavallo la città abbracciava la linea della costa e le onde andavano a sbattere dritte contro il suo argine dorato. Tra la luce splendente dell’oceano, i raggi dei due soli sopra di loro e l’onnipresente oro, Volusia decisamente abbagliava gli occhi. A fare da cornice al tutto, all’ingresso del porto, si trovavano due torreggianti pilastri che quasi raggiungevano il cielo, come bastioni di forza.
Godfrey si rendeva conto che quella città era stata costruita per intimidire, per far vedere ricchezza, e faceva bene il suo lavoro. Era una città che mostrava progresso e civilizzazione e se Godfrey non avesse saputo a priori della brutalità dei suoi abitanti, sarebbe stata la città dove lui stesso avrebbe amato vivere. Era così diversa da qualsiasi cosa l’Anello avesse da offrire. Le città dell’Anello erano costruite per fortificare, proteggere e difendere. Erano umili e discrete, come i loro abitanti. Queste città dell’Impero, d’altro canto, erano aperte, temerarie, costruite per dimostrare abbondanza e benessere. Godfrey capiva che aveva senso: dopotutto le città dell’Impero non avevano nessuno da cui temere attacchi.
Godfrey udì del trambusto venire da davanti e quando svoltarono lungo un vicolo e dietro un altro angolo, improvvisamente si aprì un enorme cortile davanti a loro, con il porto alle spalle. Era una larga piazza di pietra, il maggior crocevia della città, con una decina di strade che da qui si dipartivano portando in direzioni diverse. Tutto questo era visibile da uno scorcio attraverso un arco di pietra che si innalzava di venti metri sulle loro teste. Godfrey capì che non appena il gruppo vi fosse passato attraverso si sarebbero tutti trovati all’esterno, esposti insieme a tutti gli altri. Non sarebbero più stati capaci di svignarsela.
Ancora più sconvolgente era il fatto che Godfrey vide schiavi che si riversavano nella piazza da ogni direzione, tutti guidati dai loro supervisori: schiavi da ogni angolo dell’Impero di ogni razza, tutti incatenati, trascinati verso un’alta piattaforma alla base dell’oceano. Gli schiavi stavano in piedi su di essa mentre ricche persone dell’Impero li osservavano attentamente e facevano delle offerte. Sembrava una vendita all’asta.