Ah, così me parve, morente mi parve, quella mattina, quando i dottori l’addormentavano col cloroformio ed elle, sentendose sprofondare nell’insensibilità della morte, due o tre volte tentò di alzare le braccia verso di me, tentò di chamarmi. Io uscii dalla stanza, sconvolto; e intravidi i ferri chirurgici, un specie di cuchiaio tagliente, e la garza e il cotone e il ghiaccio e le altre cose preparate su un tavolo. Due lunghe ore, interminabili ore, aspettai, esacerbando la mia sofferenza con l’eccesso delle imaginazioni. E una disperata pietà strinse le mie viscere d’uomo, per quella creatura che i ferri del chirurgo violavano non soltanto nella carne miserabile ma nell’intimo dell’anima, nel sentimento piu delicato che una donna possa custodire: – una pietà per quella e per le altre, agitate da aspirazioni indefinite verso le idealità dell’amore, illuse dal sogno capzioso di cui il desiderio maschile le avvolge, smanianti d’inalzarsi, e così deboli, così malsane, così imperfette, uguagliate alle femmine brute dalle leggi inabolibili della Natura; che impone a loro il diritto della specie, sforza le loro matrici, le travaglia di morbi orrendi, le lascia esposte, a tutte le degenerazioni. E in quella e nelle altre, rabbrividendo per ogni fibra, io vidi allora, con una lucidità spaventevole, vidi la piaga originale, la turpe ferita sempre aperta “che sanguina e che pute”…
Quando rientrai nella stanza di Giuliana, ella era ancóra sotto l’azione dell’anestetico, senza conoscenza, senza parola: ancóra simile a una morente. Mia madre era ancóra pallidissima e convulsa. Ma pareva che l’operazione fosse riuscita bene; i dottori parevano soddisfatti. L’odore del iodoformio impregnava l’aria. In un canto, la monaca inglese empiva di ghiaccio una vescica; l’assistente ravvolgeva una fascia. Le cose tornavano nell’ordine e nella calma, a poco a poco.
L’inferma rimase a lungo in quel sopore; la febbre comparve leggerissima. Nella notte però ella fu presa da spasimi allo stomaco e da un vomito infrenabile. Il laudano non la calmava. E io, fuori di me, allo spettacolo di quello strazio inumano, credendo ch’ella dovesse morire, non so più che dissi, non so più che feci. Agonizzai con lei.
Nel giorno seguente, lo stato dell’inferma migliorò; e poi, di giorno in giorno, andò ancóra migliorando. Le forze lentissimamente tornavano.
Io fui assiduo al capezzale. Mettevo una certa ostentazione nel ricordare a lei, con i miei atti, l’infermiere d’una volta; ma il sentimento era diverso, era sempre fraterno. Spesso io avevo lo spirito preoccupato da qualche frase d’una lettera dell’amante lontana, mentre leggevo a lei qualche pagina d’un libro preferito. L’Assente era indimenticabile. Talora però, quando nel rispondere a una lettera mi sentivo un po’ svogliato e quasi tediato, in certe strane pause che nella lontananza ha anche una passione forte, io credevo questo un indizio di disamore; e ripetevo a me stesso: “Chi sa!”.
Un giorno, mia madre disse a Giuliana, in mia presenza: – Quando ti leverai, quando ti potrai muovere, andremo tutti insieme alla Badiola. Non è vero, Tullio?
Giuliana mi guardò.
– Sì, mamma – risposi, senza esitare, senza riflettere. – Anzi, io e Giuliana andremo a Villalilla.
Ed ella di nuovo mi guardò; e sorrise, d’un sorriso impreveduto, indescrivibile, che aveva una espressione di credulità quasi infantile, che somigliava un poco a quello d’un bambino malato a cui sia fatta una grande insperata promessa. Ed abbassò le palpebre; e continuò a sorridere, con gli occhi socchiusi che vedevano qualche cosa lontana, molto lontana. E il sorriso s’attenuava, s’attenuava, senza estinguersi.
Quanto mi piacque! Come l’adorai, in quel momento! Come sentii che nulla al mondo vale la semplice commozione della bontà!
Una bontà infinita emanava da quella creatura e mi penetrava tutto l’essere, mi colmava il cuore. Ella stava nel letto supina, rialzata da due o tre guanciali; e la sua faccia dall’abondanza dei capelli castagni un poco rilasciati acquistava una finezza estrema, una specie d’immaterialità apparente. Aveva una camicia chiusa intorno al collo, chiusa intorno ai polsi; e le sue mani posavano sul lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.
Presi una di quelle mani (mia madre era già uscita dalla stanza); e dissi sottovoce:
– Torneremo dunque… a Villalilla.
La convalescente disse:
– Sì.
E tacemmo, per prolungare la nostra commozione, per conservare la nostra illusione. Sapevamo ambedue il significato profondo che nascondevano quelle poche parole scambiate sottovoce. Un acuto istinto ci avvertiva di non insistere, di non definire, di non andare oltre. Se avessimo parlato ancóra, ci saremmo trovati davanti alle realtà inconciliabili con l’illusione in cui le nostre anime respiravano e a poco a poco s’intorpidivano deliziosamente.
Quel torpore favoriva i sogni, favoriva gli oblii. Passammo un intero pomeriggio quasi sempre soli, leggendo a intervalli, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. Avevamo là qualche libro di poesia; e noi davamo ai versi una intensità di significato, che non avevano. Muti, ci parlavamo per la bocca di quel poeta affabile. Io segnavo con l’unghia le strofe che parevano rispondere al mio sentimento non rivelato.
Ed ella, dopo aver letto, si riabbandonava per un poco su i guanciali, chiudendo gli occhi, con un sorriso quasi impercettibile.
Ma io vedevo sul suo petto la camicia secondare il ritmo del respiro con una mollezza che incominciava a turbarmi come il fievole profumo di ireos esalato dai lenzuoli, e dai guanciali. Desiderai ed aspettai che ella, sorpresa da un subitaneo languore, mi cingesse il collo con un braccio e congiungesse la sua guancia alla mia così ch’io sentissi sfiorarmi dall’angolo della sua bocca. Ella pose l’indice affilato su la pagina e segnò con l’unghia il margine, guidando la mia lettura commossa.
Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:
– Tu… potresti dimenticare?
Ella mi chiuse la bocca, e pronunziò la sua gran parola:
– Silenzio.
Entrò mia madre annunziando la visita della signora Tàlice, in quel punto. Io lessi nel volto di Giuliana il fastidio, e anch’io fui preso da un’irritazione sorda contro l’importuna. Giuliana sospirò:
– Oh mio Dio!
– Dille che Giuliana riposa – io suggerii a mia madre con un accento quasi supplichevole.
Ella mi accennò che la visitatrice aspettava nella stanza contigua. Bisognò riceverla.
Questa signora Tàlice era d’una loquacità maligna e stucchevole. Mi guardava di tratto in tratto con un’aria curiosa. Come mia madre per caso, nel corso della conversazione, disse ch’io tenevo compagnia alla convalescente dalla mattina alla sera quasi di continuo, la signora Tàlice esclamò con un tono d’ironia manifesta, guardandomi:
– Che marito perfetto!
La mia irritazione crebbe così che mi risolsi, con un pretesto qualunque, ad andarmene.
Uscii di casa. Incontrai per le scale Maria e Natalia che tornavano accompagnate dalla governante. Mi assalirono secondo il solito, con un’infinità di moine; e Maria, la maggiore, mi diede alcune lettere che aveva prese dal portiere. Tra queste riconobbi sùbito la lettera dell’Assente. E allora mi sottrassi alle moine, quasi con impazienza. Giunto su la strada, mi soffermai per leggere.
Era una lettera breve ma appassionata, con due o tre frasi d’una eccessiva acutezza, quali sapeva trovare Teresa per agitarmi. Ella mi faceva sapere che sarebbe stata a Firenze tra il 20 e il 25 del mese e che avrebbe voluto incontrarmi là “come l’altra volta”. Mi prometteva notizie più esatte pel convegno.