Lui mi volta le spalle, sento il peso del coltello nella mia mano, le mie gambe iniziano a muoversi e gli conficco la lama nella sua ampia schiena. Non sente il pungiglione, continua a colpire mia sorella senza curarsi di me e della ferita che gli ho inflitto. Lo pugnalo ancora e ancora con il coltello ma lui non smette di colpire la ragazza indifesa che la vita aveva già abbandonato. Alla fine crolla sul pavimento di linoleum, accanto al minuscolo cadavere, morto.
Le mani di mio zio mi afferrano, mia zia strilla ed Elvis finisce la sua canzone.
Un altro grande sorso dalla bottiglia mi scorre in gola mentre le lacrime mi scorrono sul viso. Non ricordo il viso di mia madre, né quello di mia sorella, ma ricordo ogni singolo momento di quella notte mentre Elvis cantava quella stessa canzone.
Asciugo le lacrime che non mi asciugo da decenni. Le ultime sono scese mentre pregavo mio padre di smetterla. Vivere in un orfanotrofio le aveva allontanate per sempre.
Fino ad ora.
Lui nel suo cappotto verde, pantaloni bianchi e berretto in testa, sta sulla soglia, immobile come una lapide. Non muove le mani né sussurra. Per la prima volta lo vedo in piedi, immobile. Come se potesse leggere i miei pensieri.
- Papà ... - Lo chiamo.
Gira lentamente la testa verso di me e finalmente, dopo tutti questi anni, vedo i suoi occhi. Non sono neri come quella notte, ma marroni e caldi, come lo sono sempre stati. Ci guardiamo per qualche istante, momenti che sembrano lunghi quanto gli anni che ho passato senza mia madre, mio padre e mia sorella.
- Papà, ti perdono. Ti perdono con tutto il cuore. Ti perdoniamo tutti. Per favore, perdonami anche tu.
Le lacrime gli rigano le guance. Lui si avvicina a me, allarga le braccia e mi offre un abbraccio.
Lo abbraccio, sento le sue mani e respiro il dolce profumo. Sento tutti gli anni passati, il sorriso di mia madre, le chiacchiere di mia sorella, il nostro giardino, l’altalena e la povera casa. Tutte le corse della nostra Fiat e gli anni rubati da Azra.
La sua voce, che non sentivo da tanti anni, improvvisamente riempie la stanza.
- Va tutto bene, figlio mio. Va tutto bene, non ho niente da perdonarti.
Poi scompare. E con lui, il suo odore.
- Papà?
Non ricevo risposta.
All’improvviso mi sento vuoto, ma questa sensazione non è nulla in confronto al sollievo che si apre come un pozzo nella mia coscienza, un pozzo in cui affondano tutta la colpa, il rimorso e il dolore, anche se so che il tunnel ha lasciato cicatrici di terrore in me e quel qualcosa che mi perseguita ancora.
Il telefono è sul tavolo. Lo prendo e compongo un numero, ora non voglio stare da solo.
- È troppo tardi se vengo adesso?
Non ottengo subito la risposta, lei è piuttosto sorpresa.
- Certo che no, sbrigati, sono molto felice.
Riattacco, mi preparo e cerco papà, ma non lo trovo.
Se n’è andato per sempre.
Ma la vita continua e anche la felicità. So cosa farne.
Nonostante il tunnel K-14 di Azra.