Assassinio in villa - Грейс Фиона страница 3.

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“Certo che sì. Nessuno ti biasima per questo. Solo non fare niente di avventato. Voglio dire, hai scelto la tua carriera al posto di David. Non metterla a rischio.”

Lacey esitò, le sopracciglia inarcate per la confusione. Era così che Naomi interpretava la situazione?

“Io non ho scelto la mia carriera al suo posto. È stato lui a darmi l’ultimatum.”

“Girala dal verso che vuoi, Lace, però… FRANKIE! FRANKIE, GIURO…”

Lacey aveva raggiunto l’ufficio. Sospirò. “Ciao, Naomi.”

Terminò la chiamata e fissò l’alto edificio in mattoni al quale aveva donato quindici anni della propria vita. Quindici al lavoro. Quattordici a David. Era chiaramente ora che donasse qualcosa a se stessa, no? Solo una piccola vacanza. Un viaggio lungo la linea della memoria. Una settimana. Una quindicina di giorni. Al massimo un mese.

Con un improvviso senso di risoluzione, Lacey entrò a grandi passi nell’edificio. Trovò Saskia in piedi davanti a un computer, intenta ad abbaiare ordini a una stagista che la guardava con espressione terrorizzata. Prima che la sua titolare avesse anche solo la possibilità di dirle una parola, Lacey sollevò una mano interrompendola.

“Mi prendo del tempo libero,” disse.

Ebbe solo il tempo di vedere Saskia che aggrottava la fronte, prima di girare sui tacchi e ripercorrere di gran marcia la strada da cui era venuta.

Cinque minuti dopo, Lacey era al telefono e stava prenotando un volo per l’Inghilterra.

CAPITOLO DUE

“Sei ufficialmente diventata pazza, sorellina.”

“Tesoro, ti stai comportando in modo irrazionale.”

“Zia Lacey sta bene?”

Le parole di Naomi, mamma e Frankie riecheggiavano nella mente di Lacey mentre scendeva dall’aereo all’aeroporto di Heathrow. Magari era stata davvero pazza a saltare sul primo volo in partenza dal JFK, affrontare un viaggio di sette ore su un aereo con nient’altro che la sua borsetta, i suoi pensieri e una borsa di stoffa piena di vestiti e articoli da toletta che aveva comprato dalle catene di negozi in aeroporto. Ma voltare le spalle a Saskia, a New York e a David era stato davvero inebriante. L’aveva fatta sentire giovane. Spensierata. Avventurosa. Coraggiosa. In effetti, le aveva ricordato la Lacey Doyle che era stata nell’AD (Ante David).

Dare alla sua famiglia la notizia che se ne stava andando in Inghilterra senza il minimo preavviso – e nientemeno che in vivavoce – era stato meno inebriante, dato che nessuno di loro sembrava avere filtri e tutti e tre condividevano la stessa cattiva abitudine di esprimere a voce alta quello che passava loro per la testa.

“E se ti licenziano?” aveva piagnucolato sua madre.

“Oh, la licenzieranno di sicuro,” aveva ammesso Naomi.

“La zia Lacey sta avendo un esaurimento nervoso?” aveva chiesto Frankie.

Lacey se li poteva figurare tutti seduti attorno a un tavolo riunioni, concentrati a fare del loro meglio per mandare all’aria il suo piano. Ma ovviamente la realtà non era questa. In quanto suoi più vicini e cari parenti, era loro compito servirle le verità più dure. In questa nuova e poco familiare epoca DD – Dopo David – chi altri avrebbe potuto farlo?

Lacey attraversò l’atrio seguendo il resto dei passeggeri dallo sguardo vacuo. Nell’aria si sentiva la famigerata pioggerellina inglese. Che fantastica primavera. Con l’umidità a incresparle i capelli, Lacey poteva finalmente prendersi una pausa per riflettere. Ma adesso non c’era nessuna via di ritorno, non dopo un volo di sette ore e diverse centinaia di verdoni usciti dal suo conto corrente.

Il terminal era un enorme edificio a forma di serra, tutto acciaio e lucido vetro blu, sovrastato da un tetto curvo all’avanguardia. Lacey entrò nella luccicante stanza dal pavimento piastrellato, decorata con affreschi cubisti offerti dalla, British Building Society – società dal nome d’altri tempi – e si accodò alla fila per il controllo passaporti. Quando arrivò il suo turno, si trovò davanti alla guardia allo sportello, una donna accigliata con i capelli biondi e le sopracciglia disegnate con la matita nera. Lacey le porse il suo passaporto.

“Il motivo della sua visita? Lavoro o piacere?”

L’accento della guardia era duro, lontano dal morbido britannico parlato dagli attori che tanto affascinavano Lacey ne suoi talk-show notturni preferiti.

“Sono in vacanza.”

“Non ha un biglietto di ritorno.”

A causa della sua grammatica poco ortodossa, il cervello di Lacey ebbe bisogno di un momento per elaborare ciò che la donna stava effettivamente dicendo. “È una vacanza con ritorno aperto.”

La donna sollevò le sue grandi sopracciglia nere e il suo cipiglio si trasformò in sospetto. “Le serve un visto se pensa di lavorare.”

Lacey scosse la testa. “Non è mia intenzione farlo. L’ultima cosa per cui sono qui è il lavoro. Ho appena divorziato. Ho bisogno di un po’ di tempo e di spazio per schiarirmi le idee, di mangiare gelato e di guardare qualche pessimo film.”

I lineamenti della guardia si ammorbidirono all’istante in uno slancio di empatia, suggerendo a Lacey la netta impressione che anche lei facesse parte del Club delle Divorziate Tristi.

La guardia le restituì il passaporto. “Buona permanenza. E testa alta, ok?”

Lacey mandò giù il piccolo nodo che le si era formato in gola, ringraziò la donna e proseguì verso gli arrivi. Lì c’erano diversi gruppetti di persone che aspettavano l’arrivo dei loro cari. Alcuni tenevano in mano palloncini, altri dei mazzi di fiori. Un gruppo di bambini biondissimi teneva un cartello che diceva “Bentornata a casa mamma! Ci sei mancata!”

Ovviamente non c’era nessuno ad accogliere lei, e mentre attraversava l’atrio gremito di gente, diretta verso l’uscita, pensò a come David non l’avrebbe più aspettata al suo arrivo in un aeroporto. Se solo avesse saputo che quella volta che era tornata da quel viaggio di lavoro – l’acquisto di un vaso d’antiquariato a Milano – sarebbe stata l’ultima volta che David l’avrebbe sorpresa con il sorriso in faccia e un grosso mazzo di margherite variopinte in mano. Di certo avrebbe assaporato di più il momento.

Una volta uscita, prese un taxi. Era uno di quelli classici neri, e il solo vederlo le procurò all’istante una fitta di nostalgia. Lei, Naomi e i loro genitori avevano viaggiato su un taxi nero quella volta, durante la loro fatidica ultima vacanza di famiglia.

“Dove è diretta?” chiese il tassista quando lei si fu accomodata dietro.

“Wilfordshire.”

Passò un secondo. L’autista si girò del tutto per guardarla in faccia, la fronte profondamente corrugata. “Sa quanto costa un tragitto di due ore?”

Lacey sbatté le palpebre, non sicura di comprendere cosa l’uomo stesse tentando di comunicarle.

“Nessun problema,” disse scrollando impercettibilmente le spalle.

Il tassista parve ancora più perplesso. “È una yankee, vero? Beh, non so quanto è abituata a spendere per un taxi laggiù, ma da questa parte dell’oceano, un viaggio di due ore le costerà un bel gruzzoletto.”

Le sue maniere brusche la colsero un po’ di sorpresa, non solo perché non combaciavano con l’immagine dello sfacciato tassista londinese che aveva nella sua testa, ma più per la velata allusione al fatto che lei potesse non permettersi un viaggio del genere. Si chiese se ciò fosse dovuto al fatto che lei era una donna che viaggiava da sola. Nessuno aveva mai sporto obiezioni quando lei e David avevano preso un taxi insieme per un lungo tragitto.

“Posso pagare,” lo rassicurò, il tono un po’ raggelato.

L’autista si rigirò e premette il pulsante d’accensione del tassametro. Il dispositivo emise un bip e una lucina verde raffigurante il simbolo della sterlina si accese, suscitando in Lacey l’ennesima ondata di nostalgia.

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